Condanna penale per il detentore di cane che aggredisce un’altra persona e ne uccide il cagnolino – Cass. pen. 10192/21
Lesioni personali consistite in una ferita lacero-contusa alla mano destra ed escoriazioni e graffiature agli arti anteriori, l’addebito mosso a una donna che non aveva provveduto a dotare di guinzaglio e museruola il cane pitbull, che si trovava in auto con lei, consentendogli di scendere e di aggredire la persona offesa che stava transitando con il proprio cane di piccola taglia (che veniva ucciso dal pitbull).
Secondo la difesa non sussisterebbe l’elemento soggettivo della colpa (né a titolo di imprudenza, né a titolo di negligenza o imperizia), perché il cane, trovandosi all’interno dell’autovettura, non necessitava di essere tenuto al guinzaglio e con museruola; l’evento si sarebbe verificato per “caso fortuito”, perché il cane avrebbe sfondato il tettuccio di plastica decapottabile, per andare ad aggredire il cagnolino della parte offesa.
In realtà il cane proveniva da un canile siciliano e si era dimostrato molto aggressivo sin dall’inizio, tanto che, avendo morsicato anche la stessa imputata ed un’altra persona, poco dopo il fatto era stato chiesto al canile di riprenderlo.
La Corte in proposito obietta che l’assenza della condotta colposa viene argomentata sulla base di un fatto la cui sussistenza è esclusa dal giudice di merito. La difesa, infatti, insiste sullo sfondamento da parte del cane del tettuccio decappottabile dell’auto nella quale l’animale si trovava insieme con l’imputata. Ma tale fatto è stato provato, anzi, i giudici del merito hanno accertato che il cane uscì dalla portiera dell’auto, aperta dall’imputata, la quale omise di assicurarsi che un cane così aggressivo, potesse uscire dall’abitacolo, nè lo dotò di una museruola, al fine di evitare eventi quali quello prodottosi.
Secondo la corte di cassazione, posto che l’obbligo di custodia e vigilanza sull’animale non sorge necessariamente dalla titolarità del proprietario, ma dal rapporto di fatto instauratosi con il medesimo, che può derivare anche dall’occasionale affidamento, o più semplicemente dalla detenzione, nell’occasione, incombeva proprio sull’imputata l’onere di adottare misure per evitare che il pitbull, di proprietà del compagno, cagionasse danni a terzi.
Da altro punto di vista, la difesa critica l’entità della pena inflitta, pari al massimo edittale che sarebbe stata così commisurata alla luce del comportamento dell’imputata successivo all’evento che non avrebbe prestato assistenza al ferito. Si obietta che invece il giorno successivo al fatto, il proprietario del cane, compagno dell’imputata si recò presso il domicilio della parte offesa con il libretto identificativo dell’animale. Tale motivo è, secondo i giudici di legittimità, manifestamente infondato, perché il giudice di merito ha motivato la misura massima, giustificandola con la gravità della condotta colposa, emersa anche dalla conoscenza da parte dell’imputata dell’aggressività dell’animale, già autore di episodi del genere. La constatazione dell’assenza di interessamento nei confronti della vittima viene ricavata dalla ricostruzione contenuta nella sentenza e costituisce mero elemento di contorno.
Il ricorso è stato respinto e la pena confermata.
Sul tema, Gasparre, Convivere con gli animali: le ricadute civili e penali della responsabilità per fatto dell’animale, Key editore https://www.keyeditore.it/libri/convivere-con-gli-animali-le-ricadute-civili-e-penali-della-responsabilita-per-fatto-dellanimale/
Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 2 marzo – 17 marzo 2021, n. 10192 – Presidente Menichetti – Relatore Nardin
Ritenuto in fatto
1. F.S. ricorre avverso la sentenza del Tribunale di Como, in funzione di giudice di appello che ha confermato la sentenza del giudice di Pace di Como con cui F.S. è stata condannata ex art. 590 c.p., per avere colposamente cagionato ad A.A. lesioni personali, consistite in ferita lacero-contusa alla mano destra ed escoriazioni e graffiature agli arti anteriori, perché non avendo provveduto a dotare di guinzaglio e museruola il cane pitbull, che sì trovava in auto con lei, gli consentiva di scendere e di aggredire la persona offesa che stava transitando con il proprio cane di piccola taglia, che veniva ucciso.
2. Formula tre motivi di doglianza.
3. Con il primo denuncia il vizio di motivazione, sotto il profilo della manifesta illogicità con riguardo alla valutazione delle prove dichiarative, ritenute decisive. Osserva che i giudici del merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità esclusivamente sulle dichiarazioni della persona offesa, considerandole corroborate da quelle di due testimoni -la moglie di A.A. ed una vicina di casa- non presenti al fatto. Richiama la giurisprudenza di legittimità sulla valenza probatoria della deposizione della persona offesa, costituita parte civile.
4. Con il secondo motivo fa valere il vizio di motivazione in ordine alla mancata assoluzione dell’imputata, per difetto dell’elemento soggettivo. Rileva che il giudice di pace ha ritenuto sussistenti gli estremi del “dolo generico” e che il giudice di appello, pur sottolineando l’errore lo ha superato, escludendo che potesse configurare un’ipotesi di nullità della sentenza. Sostiene l’inconfigurabilità della colpa, posto che il cane non era dotato di guinzaglio e museruola, perché si trovava all’interno dell’autovettura, da cui uscì sfondando il tettuccio di plastica decapottabile, per andare ad aggredire il cagnolino della parte offesa, senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Sottolinea che il pitbull, ricevuto da un canile siciliano, si era dimostrato molto aggressivo sin dall’inizio, tanto che, avendo morsicato anche la stessa imputata ed un’altra persona, poco dopo il fatto era stato chiesto al canile di riprenderlo. Non corrisponde, dunque, al vero quanto riferito dalla persona offesa che, certamente in modo poco lucido, visto quanto accaduto, ha riferito che fu l’imputata ad aprire la portiera dell’auto, non impedendo che l’animale uscisse. Nessuna imprudenza, negligenza o imperizia è, pertanto, addebitabile all’imputata.
5. Con il terzo motivo si duole della falsa applicazione della legge penale in relazione agli artt. 132 e 133 c.p.. Deduce che la pena inflitta, pari ad Euro 2.500,00 di multa, pari al massimo edittale, non trova adeguato conforto nella motivazione, che si fonda principalmente sul comportamento dell’imputata successivo all’evento, censurando la mancata assistenza al ferito. Invero, il giudice di appello omette di considerare le dichiarazioni della vicina di casa di A.A. , la quale ha riferito che F.S. le fornì il proprio numero telefonico, per darne notizia ad A. , che comunque accompagnò presso g casa; ma omette altresì di precisare che il giorno successivo al fatto, il proprietario del cane, compagno dell’imputata si recò presso il domicilio della parte offesa con il libretto identificativo dell’animale; e dimentica che -nonostante la prognosi di otto giorni – A.A. , si recò al lavoro il giorno immediatamente successivo all’incidente. Da ciò emerge la contraddittorietà della sentenza che applica la pena massima, senza tenere conto di quanto effettivamente emerso in giudizio. Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.
6. Con requisitoria scritta D.L. n. 13 del 2020, ex art. 23, il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso va dichiarato inammissibile.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3. Il giudice di appello, infatti, si fa carico di dare risposta ai motivi introdotti con il gravame, qui pedissequamente riproposti e per ciò solo inammissibili, in ordine alla ricostruzione del fatto. In particolare, osserva che le dichiarazioni della vicina di casa, D.I. , escussa come teste, possono essere considerate confermative della versione dei fatti resa dalla persona offesa, in quanto ella raccolse il racconto di A. , nell’immediatezza dei fatti, quando incontrò il medesimo sotto casa, ancora “gocciolante di sangue”. La corrispondenza fra quanto riferito dalla parte offesa in giudizio e quanto narrato dalla teste, dunque, proprio per la prossimità fra l’evento e le informazioni ricevute da quest’ultima da parte del ferito, è ciò su cui la sentenza fonda la credibilità della versione fornita da A. , ulteriormente convalidata, secondo il giudice di merito, dalle dichiarazioni della moglie, ma soprattutto dalla mancanza di riscontri alle dichiarazioni dell’imputata. Proprio sull’assenza della prova dello sfondamento del tettuccio decappottabile dell’auto, e sull’assenza della conferma dell’interessamento da parte sua nei confronti della vittima, che diversamente da quanto sostenuto fu riaccompagnata da terze persone, la sentenza esclude la credibilità complessiva della medesima.
4. Il giudice di seconde cura, dunque, lungi dall’ignorare i criteri di valutazione delle dichiarazioni della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile, come enunciati dalle Sezioni Unite (cfr. “Le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone” (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi). (Sez. U, Sentenza n. 41461 del 19/07/2012, Rv. 253214)), si preoccupa di porle a confronto con tutto il materiale probatorio a disposizione. E solo al termine di un analitico procedimento valutativo giunge a considerare pienamente credibile la versione dei fatti offerta dal danneggiato.
5. D’altro canto, non solo, una volta verificata la correttezza metodologica del ragionamento ricostruttivo del fatto, il vaglio della verifica probatoria è sottratta al sindacato di questa Corte, ma la semplice riproduzione delle medesime censure già proposte con l’appello, non accompagnate da una critica puntuale delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata, impedisce ogni intervento, in questa sede. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito in plurime occasioni come sia inammissibile per genericità “il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso. (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 Ud. Rv. 260608; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014 Ud. Rv. 259425; Sez. 6, n. 34521 del 27 giugno 2013; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 Ud. Rv. 25568; Sez. 3, n. 29612 del 05/05/2010 Ud. Rv. 247741; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Rv. 243838).
6. Eguale sanzione di inammissibilità merita il secondo motivo di ricorso.
7. La doglianza appare pretestuosa in relazione al primo profilo, con il quale si lamenta il mancato annullamento della sentenza di primo grado, da parte del giudice di seconde cure, per avere la decisione appellata fatto riferimento alla sussistenza del “dolo generico”, anziché alla colpa, come contestata con l’incolpazione. Al di là del grave errore giuridico contenuto nella sentenza di prima cura, invero, la difesa non può ignorare che la natura pienamente devolutivi dell’appello implica che il giudice di seconde cura -al di là dei casi tassativamente previsti dall’art. 604 c.p.p., per i quali deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grad9- debba provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere,, sinanco la motivazione integralmente mancante” (cfr. ex multis Sez. 6, Sentenza n. 58094 del 30/11/2017 Rv. 271735).
8. Il secondo profilo, introdotto con il medesimo motivo, invece, è manifestamente infondato.
L’assenza della condotta colposa viene argomentata sulla base di un fatto la cui sussistenza è esclusa dal giudice. Si insiste, invero, sullo sfondamento da parte del cane del tettuccio decappottabile dell’auto nella quale l’animale si trovava insieme con l’imputata. Circostanza questa che, nella prospettazione difensiva, escluderebbe ogni forma di imprudenza o negligenza, non potendo richiedersi alla medesima di contenere la furia del cane. Al contrario, i giudici del merito hanno accertato che il cane uscì dalla portiera dell’auto, aperta da F.S. , la quale omise di assicurarsi che un cane così aggressivo, potesse uscire dall’abitacolo, nè lo dotò di una museruola, al fine di evitare eventi quali quello prodottosi.
Va, in proposito, ricordato che “L’obbligo di custodia e vigilanza sull’animale non sorge necessariamente dalla titolarità del proprietario, ma dal rapporto di fatto instauratosi con il medesimo, che può derivare anche dall’occasionale affidamento, o più semplicemente dalla detenzione” (Sez. 4, n. 51448 del 17/10/2017, Polito, Rv. 271329). Sicché, nell’occasione, incombeva proprio sull’imputata l’onere di adottare misure per evitare che il pitbull, di proprietà del compagno, cagionasse danni a terzi.
9. Manifestamente infondato, infine, è l’ultimo motivo di ricorso. Il giudice di secondo grado, infatti, ha ampiamente motivato la pena inflitta nella misura massima, giustificandola con la gravità della condotta colposa, emersa anche dalla conoscenza da parte dell’imputata dell’aggressività dell’animale, non nuovo ad episodi del genere. La constatazione dell’assenza di interessamento nei confronti della vittima viene ricavata dalla ricostruzione contenuta nella sentenza -su cui, come si è detto, questa Corte non ha alcun sindacato- e costituisce mero elemento di contorno, cui il giudice fa riferimento all’unico scopo di dare risposta al motivo di gravame, che proprio sulla base dell’intervento a favore della persona offesa chiedeva una riduzione della sanzione inflitta.
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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