La vittima del furto è deceduta nel corso del procedimento ma le sue dichiarazioni sono state acquisite nel processo.
Un giorno riceveva la visita di un tale che, presentatosi come addetto dell’acquedotto, gli chiedeva informazioni sul figlio e gli spiegava che avrebbe dovuto effettuare una verifica all’impianto idrico. Sopraggiungeva un’altra persona, affermando di essere un appartenente al corpo locale della Polizia Municipale, che chiedeva di entrare per un controllo. Il sedicente poliziotto esibiva un documento di riconoscimento e due oggetti, sostenendo che fossero stati rubati al figlio e ritrovati dalla Polizia. Con tali pretesti i due si facevano accompagnare dall’anziana vittima nelle diverse stanze della villa e nell’appartamento del figlio, ubicato al suo interno.
Quando i due individui lasciarono l’abitazione, la vittima e la moglie si resero conto che era stato perpetrato un furto in casa del figlio, constatando l’ammanco di alcuni gioielli.
Sottoposto a riconoscimento fotografico, la vittima riconosceva uno degli autori del furto.
Sulla base delle dichiarazioni rese dalla vittima e del riconoscimento effettuato in corso di indagini si addiveniva alla condanna per furto.
I riconoscimenti fotografici effettuati in sede di indagini di polizia, come anche i riconoscimenti informali operati dai testi in dibattimento, hanno carattere di accertamenti di fatto e sono utilizzabili nel giudizio in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova ed a quello del libero convincimento del giudice. In tali casi la certezza della prova dipende non dal riconoscimento in sé, ma dalla ritenuta attendibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica certo della sua identificazione. Il momento ricognitivo costituisce parte integrante della testimonianza, di tal che l’affidabilità e la valenza probatoria dell’individuazione informale discendono dall’attendibilità accordata al teste ed alla deposizione dal medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del giudice.
Nel caso esaminato, il verbale delle dichiarazioni della persona offesa che accompagnava il riconoscimento fotografico e lo stesso riconoscimento fotografico sono stati acquisiti al dibattimento ai sensi dell’art. 512 c.p.p., essendo divenuta irripetibile la testimonianza della persona offesa in seguito al suo decesso.
Secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono – conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza europea – fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale.
Pertanto, il dato probatorio costituito da dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, acquisite senza la instaurazione di un contraddittorio e prive di elementi di riscontro esterno debbano considerarsi dotate di un valore probatorio limitato, costituendo “una fonte ontologicamente meno affidabile”, non idonea a fondare in via esclusiva o determinante la certezza processuale della responsabilità dell’imputato.
Nel caso di specie hanno errato i giudici di merito a incentrare il giudizio di responsabilità in misura unica e determinante sulle dichiarazioni della persona offesa e sul riconoscimento fotografico operato in fase d’indagini.
Cass. pen., sez. IV, ud. 4 maggio 2021 (dep. 12 luglio 2021), n. 26336 – Presidente Fumu/Relatore Bruno
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa in data 16/1/2019, la Corte d’appello di Milano ha confermato la pronuncia del Tribunale di Pavia che aveva condannato R.M. alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 400,00 di multa, ritenendolo responsabile del reato di cui agli artt. 110 e 624-bis c.p., art. 625 c.p., comma 1, n. 2 e 5, art. 61, n. 5. I fatti, come ricostruiti nelle due sentenze conformi possono esser così riassunti.
C.G. , le cui dichiarazioni sono state acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p., essendo deceduto nel corso del procedimento, in data (OMISSIS), riceveva la visita di un individuo, il quale, presentatosi come addetto dell’acquedotto, gli chiedeva informazioni sul figlio e gli spiegava che avrebbe dovuto effettuare una verifica all’impianto idrico della casa.
Dopo poco sopraggiungeva altra persona, che, affermando di essere un appartenente al corpo locale della Polizia Municipale, chiedeva di entrare per un controllo. Il sedicente poliziotto, privo della divisa di ordinanza, esibiva un documento di riconoscimento e due oggetti, sostenendo che fossero stati rubati al figlio e ritrovati dalla Polizia. Con tali pretesti i due si facevano accompagnare dall’anziana vittima nelle diverse stanze della villa e nell’appartamento del figlio, ubicato al suo interno.
Quando i due individui lasciarono l’abitazione, il C. e la moglie si resero conto che era stato perpetrato un furto in casa del figlio, constatando l’ammanco di diversi gioielli.
All’esito della denuncia sporta innanzi ai Carabinieri, C.G. riconosceva nel R.M. uno degli autori del furto, visionando un fascicolo fotografico composto da 12 fotografie.
Sulla base delle dichiarazioni rese dalla vittima e del riconoscimento effettuato in corso di indagini si addiveniva alla condanna del ricorrente per il furto perpetrato nell’abitazione degli anziani coniugi.
2. Avverso la sentenza di condanna ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, lamentando, in sintesi, giusta il disposto di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, quanto segue. 1) Violazione e/o erronea applicazione degli artt. 189 e 192 c.p.p., art. 3 Cost., 6 C.E.D.U.; carenza, illogicità e/o contraddittorietà della motivazione, con riferimento al giudizio di attendibilità dell’individuazione fotografica posta a fondamento della pronuncia di condanna adottata nei confronti dell’imputato; mancata valutazione di riscontri esterni alla stessa e sostanziale travisamento del suo esito a fronte della sopravvenuta irripetibilità dell’atto in sede dibattimentale. La difesa rileva come la Corte di merito, trascurando le precise doglianze espresse nell’atto di appello, sia pervenuta all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato avvalendosi unicamente del riconoscimento fotografico effettuato dalla persona offesa in fase d’indagini, divenuto irripetibile nel corso del dibattimento. Sarebbero state trascurate immotivatamente le numerose incongruenze che hanno caratterizzato la complessiva attività ricognitiva. La persona offesa aveva fornito indicazioni molto generiche sulle caratteristiche fisiche degli autori del furto, affermando che colui con il quale aveva maggiormente interagito era un uomo dell’apparente età di circa 30-40 anni, dalla corporatura robusta. L’album fotografico esibito per il riconoscimento era costituito prevalentemente da fotografie ritraenti soggetti giovanissimi, anche dalla corporatura molto esile, in netto contrasto con la descrizione fornita dalla vittima. Gli adempimenti preparatori alla ricognizione, richiesti dall’art. 213 c.p.p., rivestono particolare importanza ai fini del controllo giudiziale in ordine all’affidabilità dell’atto probatorio. Tali cautele mirano in concreto a verificare la congruenza del percorso che ha portato il teste a riconoscere, tra le varie immagini a lui sottoposte, quella che corrisponde al soggetto osservato, permettendo di saggiare la forza dimostrativa del riconoscimento. La Corte d’appello di Milano si sarebbe limitata ad affermare che il riconoscimento positivo operato dal teste è da ritenersi attendibile perché effettuato in prossimità temporale dei fatti e perché coerente con la descrizione fisica del reo fornita in sede di sommarie informazioni. Quanto esposto nella motivazione dell’impugnata sentenza non esprime un adeguato vaglio di credibilità ed attendibilità dell’atto ricognitivo assunto in indagini. Oltretutto, nella vicenda in esame, il contributo probatorio fornito dalla persona offesa è giunto a disposizione dei giudici nella forma di dichiarazioni raccolte durante le indagini preliminari, nell’assenza della partecipazione della difesa dell’imputato alla formazione della prova. A tal proposito, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha più volte ribadito come sia aspetto fondamentale del diritto ad un equo giudizio che i procedimenti penali siano rispettosi del contraddittorio. Si è precisato che, secondo principi da tempo elaborati, l’utilizzazione di dichiarazioni di testimoni mai comparsi in dibattimento, mediante acquisizione dei relativi verbali, sia subordinata ad un duplice ordine di condizioni a garanzia dell’effettiva equità del processo: in primis, occorre verificare l’esistenza di una serio motivo per la mancata partecipazione del testimone; in secondo luogo, anche in presenza di questa prima condizione, laddove una condanna sia basata esclusivamente o in misura determinante sulle dichiarazioni fatte da una persona che l’accusato non abbia avuto alcuna possibilità di esaminare, verificare che i diritti della difesa non siano stati limitati in misura incompatibile con le garanzie di cui all’art. 6 C.E.D.U.. Nello specifico caso in esame, in assenza di ulteriori e dirimenti riscontri alla semplice individuazione fotografica, anche alla luce della sopravvenuta impossibilità di valutarne presupposti ed esito nel contraddittorio tra le parti, il debole compendio indiziario raccolto sarebbe inadeguato a fondare una pronuncia di responsabilità.
3. Il P.G., nel rassegnare conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, ha chiesto pronunciarsi la inammissibilità il ricorso. La difesa ha rassegnato conclusioni scritte nelle quali, riportandosi ai motivi di ricorso, insiste per il loro accoglimento.
Considerato in diritto
1. I motivi di doglianza proposti sono fondati.
2. I riconoscimenti fotografici che siano stati effettuati in sede di indagini di polizia, come pure i riconoscimenti informali dell’imputato operati dai testi in dibattimento, hanno carattere di accertamenti di fatto e sono utilizzabili nel giudizio in base al principio della non tassatività dei mezzi di prova ed a quello del libero convincimento del giudice. In tali casi la certezza della prova dipende non dal riconoscimento in sé, ma dalla ritenuta attendibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell’imputato, si dica certo della sua identificazione (cfr. Sez. 2, n. 17336 del 29/03/2011, Rv. 250081 – 01). Si è anche precisato che il momento ricognitivo costituisce parte integrante della testimonianza, di tal che l’affidabilità e la valenza probatoria dell’individuazione informale discendono dall’attendibilità accordata al teste ed alla deposizione dal medesimo resa, valutata alla luce del prudente apprezzamento del giudice che, ove sostenuto da congrua motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 12501 del 27/01/2015, Rv. 262908 – 01).
Nel presente caso, come rilevato dal difensore, il verbale delle dichiarazioni della persona offesa che accompagnava il riconoscimento fotografico e lo stesso riconoscimento fotografico sono stati acquisiti al dibattimento ai sensi dell’art. 512 c.p.p., essendo divenuta irripetibile la testimonianza della persona offesa in seguito al suo decesso.
Tale evenienza rende centrale il tema proposto dalla difesa nel ricorso, afferente alla possibilità di addivenire ad una pronuncia di condanna fondata esclusivamente sulle dichiarazioni della sola persona offesa in assenza di contraddittorio.
Sul punto le Sezioni Unite di questa Corte, all’esito di una lunga evoluzione giurisprudenziale, hanno avuto modo di precisare che: “Le dichiarazioni predibattimentali rese in assenza di contraddittorio, ancorché legittimamente acquisite, non possono – conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza Europea, in applicazione dell’art. 6 della CEDU – fondare in modo esclusivo o significativo l’affermazione della responsabilità penale” (Sez. U, n. 27918 del 25/11/2010, dep. 14/07/2011, Rv. 250199 – 01).
Nella cornice ermeneutica dettata dalle Sezioni Unite nella pronuncia citata il criterio di valutazione stabilito dall’art. 6 CEDU si integra necessariamente con gli altri criteri di valutazione elaborati nell’ambito dell’ordinamento processuale italiano, imponendo un’interpretazione sistematica del principio del contraddittorio nella formazione della prova e della regola di giudizio consacrata nell’art. 533 c.p.p., comma 1.
Ne deriva che il dato probatorio costituito da dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, acquisite senza la instaurazione di un contraddittorio e prive di elementi di riscontro esterno debbano considerarsi dotate di un valore probatorio limitato, costituendo “una fonte ontologicamente meno affidabile”, non idonea a fondare in via esclusiva o determinante la certezza processuale della responsabilità dell’imputato (così, in motivazione, Sez. 1, n. 14243 del 26/11/2015, dep. 08/04/2016, Rv. 266602 – 01).
3. Tanto premesso, deve rilevarsi come la Corte di merito non abbia tenuto conto dei principi richiamati.
I giudici, come lamentato dalla difesa, hanno incentrato il giudizio di responsabilità in misura unica e determinante sulle dichiarazioni della persona offesa e sul riconoscimento fotografico operato in fase d’indagini. Nessun elemento ulteriore risulta essere stato posto a fondamento del convincimento espresso, in netto contrasto con i principi stabiliti in questa sede. Tutto ciò induce ad annullare senza rinvio la sentenza impugnata risultando non dimostrata la responsabilità dell’imputato in ordine al reato a lui ascritto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
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