La persona offesa si trovava a svolgere la sua attività professionale di capotreno quando chiese il biglietto a un passeggero identificato nell’imputato; quest’ultimo non era in grado mostrare il titolo di viaggio e si rifiutava di acquistarne uno sul treno. Richiesto dei documenti di identificazione, l’imputato disse di non averli, sicché fu invitato dalla capotreno a scendere alla prima fermata utile.
Dopo una prima riluttanza, resosi conto che la capotreno stava chiedendo l’intervento delle forze dell’ordine, l’imputato si decise a scendere dal convoglio, ma, mentre stava seguendo la capotreno verso l’uscita, prima le palpeggiò il sedere, gesto che durò diversi secondi, quindi le diede un calcio sulle natiche.
L’imputato è stato condannato per i delitti di violenza sessuale e percosse in danno della capotreno.
Non scrimina la ragione: l’imputato ha ammesso di aver toccato, per un attimo, il fondoschiena della persona offesa, ma solo in modo scherzoso, senza avere l’intenzione che la sua condotta potesse integrare gli estremi del delitto di violenza sessuale, motivo secondo cui, a detta della difesa, sarebbe mancante la prova del dolo, perché l’imputato non si rappresentò, né volle, offendere sessualmente la persona offesa; si tratterebbe, pertanto, di un gesto repentino finalizzato ad oltraggiare il capotreno, ma privo di alcun intento di natura sessuale.
La Corte di cassazione ricorda che il delitto di violenza sessuale è posto a presidio della libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima. La libertà sessuale è espressione della personalità dell’individuo.
L’assolutezza del diritto tutelato non tollera possibili attenuazioni che possano derivare dalla ricerca di un fine ulteriore e diverso dalla semplice consapevolezza di compiere un atto sessuale per qualificare la penale rilevanza della condotta. Invero né il dolo specifico (“al fine di”), né alcun movente esclusivo (“al solo scopo di”) contribuiscono alla tipizzazione dell’offesa, la quale è soggettivamente ascrivibile all’agente a titolo di dolo generico.
Si è precisato, infatti, che la valorizzazione di atteggiamenti interiori sposterebbe il disvalore della condotta incriminata dalla persona che subisce la limitazione della libertà sessuale a chi la viola. Per tale ragione, l’atto deve essere definito come “sessuale” sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude.
Per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è perciò necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente “sessuale” dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito.
L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dunque, è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente, né rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti.
Nel caso di specie, l’atto era oggettivamente qualificabile come sessuale, in relazione al distretto corporeo della persona offesa “palpeggiato”, e, l’imputato era perfettamente consapevole che il toccamento dei glutei di una donna è una condotta con una oggettiva connotazione sessuale, il che integra il dolo richiesto dalla fattispecie in esame, essendo del tutto irrilevante l’imputato abbia posto in essere la condotta per dileggio e/o per scherno.
Inoltre, il ricorrente contesta la valutazione di attendibilità intrinseca, con riguardo al delitto di percosse, del racconto dalla persona offesa, la quale, dopo la duplice offesa subita, continuò a lavorare per tutto il turno, senza recarsi in ospedale per ricevere cure.
Sul punto, la Corte precisa che l’attendibilità del narrato della persona offesa anche in relazione al calcio subito, posto che il racconto dell’accaduto è scevro da contraddizioni, i toni sono rimasti sempre pacati e lo stesso imputato ha confermato le dichiarazioni della vittima con riguardo al palpeggiamento dei glutei. La Corte di merito, inoltre, ha osservato che l’assenza di certificato medico si spiegata per il fatto che si trattò di semplici percosse e non di lesioni, il che provocò solo una momentanea sensazione di dolore, ma senza necessità di ricorrere a cure mediche.
Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 maggio – 25 giugno 2021, n. 24872 – Presidente Ramacci – Relatore Corbetta
Ritenuto in fatto
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di Milano confermava la decisione emessa dal Tribunale di Milano e appellata dall’imputato, la quale, applicate le circostanze attenuanti ex art. 609 bis c.p., comma 3, e art. 62 bis c.p., e ritenuta la continuazione, aveva condannato D.R. alla pena ritenuta di giustizia per i delitti di violenza sessuale e percosse in danno S.M., nella veste di capotreno in servizio.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deducono la violazione falsa applicazione dell’art. 609 bis c.p., il vizio di motivazione e l’errata valutazione delle prove. Premette il difensore che l’imputato ha ammesso di aver toccato, per un attimo, il fondoschiena della persona offesa, ma solo in modo scherzoso, senza avere l’intenzione che la sua condotta potesse integrare gli estremi del delitto di violenza sessuale.
Ad avviso del difensore, la Corte territoriale avrebbe fornito un’errata interpretazione di tipo oggettivo, per il solo fatto che la condotta abbia attinto una zona erogena della persona offesa, a prescindere dalla durata e dall’intento dell’imputato. Nel caso in esame, pertanto, sarebbe mancante la prova del dolo, posto che l’imputato non si rappresentò, nè volle, offendere sessualmente la persona offesa; si tratterebbe, pertanto, di un gesto repentino finalizzato ad oltraggiare il capotreno, che integra gli estremi del delitto ex art. 341 bis c.p., ma privo di alcun intento di natura sessuale.
2.2. Con il secondo motivo si eccepiscono la violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p.p., e art. 581 c.p. e il vizio di motivazione. Il ricorrente censura la valutazione di attendibilità intrinseca, con riguardo al delitto di percosse, del racconto dalla persona offesa, la quale, dopo la duplice offesa subita, continuò a lavorare per tutto il turno, senza recarsi in ospedale per ricevere cure.
2.3. Con il terzo motivo si lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 163 c.p., e il vizio di motivazione. La Corte territoriale ha rigettato il motivo di appello incentrato sul riconoscimento della sospensione condizionale della pena, senza valutare la condotta dell’imputato, il quale si è scusato per l’accaduto, dando prova di resipiscenza, e considerando che egli ha interamente scontato le pene precedentemente inflitte, che, in un primo momento, erano state sospese condizionalmente.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile, perché i motivi, peraltro largamente fattuali, replicano censure che sono state rigettate dalla Corte d’appello con motivazione esente da errori di diritto e da illogicità manifeste, e con la quale il ricorrente omette di misurarsi criticamente.
2. Il primo motivo è inammissibile perché generico e fattuale.
3. La materialità del fatto è pacifica e non oggetto di contestazione.
Secondo quanto accertato in sede di merito, il giorno del fatto, la persona offesa, mentre si trovava a svolgere la sua attività professionale di capotreno su un convoglio della linea Varese-Treviglio, chiese il biglietto a un passeggero identificato nell’imputato – che questi non era in grado dimostrare, rifiutandosi di acquistarne uno sul treno. Richiesto dei documenti di identificazione, l’imputato disse di non averli, sicché fu invitato dalla capotreno a scendere dal convoglio alla prima fermata utile.
Dopo una prima riluttanza, resosi conto che la capotreno stava chiedendo l’intervento delle forze dell’ordine, l’imputato si decise a scendere dal convoglio, ma, mentre stava seguendo la capotreno verso l’uscita, prima le palpeggiò il sedere, gesto che durò diversi secondi, quindi le diede un calcio sulle natiche.
4. Ciò posto, si rammenta che il delitto di cui all’art. 609 bis c.p., è posto a presidio della libertà personale dell’individuo, che deve poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia e libertà, contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima. La libertà sessuale, quale espressione della personalità dell’individuo, trova la sua più alta forma di tutela nella proclamazione della inviolabilità assoluta dei diritti dell’uomo, riconosciuti e garantiti dalla Repubblica in ogni formazione sociale (art. 2 Cost.), e nella promozione del pieno sviluppo della persona che la Repubblica assume come compito primario (art. 3 Cost., comma 2).
La libertà di disporre del proprio corpo a fini sessuali è assoluta e incondizionata e non incontra limiti nelle diverse intenzioni che l’altra persona possa essersi prefissa. L’assolutezza del diritto tutelato non tollera, nella chiara volontà del legislatore, possibili attenuazioni che possano derivare dalla ricerca di un fine ulteriore e diverso dalla semplice consapevolezza di compiere un atto sessuale, fine estraneo alla fattispecie e non richiesto dall’art. 609 bis c.p., per qualificare la penale rilevanza della condotta.
5. Coerentemente alla natura del bene tutelato e alla centralità della persona offesa, unica titolare del diritto, nè il dolo specifico (“al fine di”), nè alcun movente esclusivo (“al solo scopo di”) contribuiscono alla tipizzazione dell’offesa, la quale è soggettivamente ascrivibile all’agente a titolo di dolo generico.
La valorizzazione di atteggiamenti interiori sposterebbe il disvalore della condotta incriminata dalla persona che subisce la limitazione della libertà sessuale a chi la viola. Diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, l’atto deve essere definito come “sessuale” sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude (Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007, Rv. 236964; Sez. 3, n. 35625 del 11/07/2007, Polifrone, Rv. 237294).
6. Per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è perciò necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente “sessuale” dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (Sez. 3, n. 3648 del 03/10/2017, dep. 25/01/2018, T., Rv. 272449: fattispecie di palpeggiamento dei glutei e del seno delle persone offese; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 21/05/2015, P.G. in c. C., Rv. 263738: fattispecie di palpeggiamenti e schiaffi sui glutei della vittima, nella quale la Corte ha escluso che l’eventuale finalità ingiuriosa dell’agente escludesse la natura sessuale della condotta).
L’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, dunque, è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente, nè rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 03/02/2015, P., Rv. 262470).
7. Nel caso di specie, la Corte territoriale si è attenuta ai principi ora richiamati, correttamente ritenendo, per un verso, che l’atto fosse oggettivamente qualificabile come sessuale, in relazione al distretto corporeo della persona offesa attinto, e, per altro verso, che l’imputato fosse perfettamente consapevole che il toccamento dei glutei di una donna è una condotta con una oggettiva connotazione sessuale, il che integra il dolo richiesto dalla fattispecie in esame, essendo del tutto irrilevante, per i motivi appena indicati, che l’imputato abbia posto in essere la condotta per dileggio e/o per scherno.
8. Il secondo motivo è inammissibile perché generico e articolato in fatto.
8.1. Invero, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, la Corte territoriale ha ribadito l’attendibilità del narrato della persona offesa anche in relazione al calcio subito, posto che il racconto dell’accaduto è scevro da contraddizioni, i toni sono rimasti sempre pacati e lo stesso imputato ha confermato le dichiarazioni della vittima con riguardo al palpeggiamento dei glutei. La Corte di merito, inoltre, ha plausibilmente osservato che l’assenza di certificato medico si spiegata per il fatto che si trattò di semplici percosse e non di lesioni, il che provocò solo una momentanea sensazione di dolore, ma senza necessità di ricorrere a cure mediche.
8.2 A fronte di tale apparato argomentativo, aderente alle emergenze processuali e immune da profili di illogicità ‘manifesta, il ricorrente confeziona motivi fattuali, tesi a una rilettura, peraltro parziale, dei dati probatori, non consentita in questa sede di legittimità.
9. Inammissibile è anche il terzo motivo.
La Corte di merito ha osservato che l’imputato ha riportato una prima condanna a pena sospesa, cui ne è seguita una seconda nel quinquennio a pena non sospesa; da ciò, la Corte d’appello ha ritenuto non potersi formulare una prognosi favorevole ai sensi dell’art. 164 c.p., comma 1, facendo corretta applicazione del principio, costantemente predicata da questa Corte di legittimità, secondo cui la reiterazione del beneficio della sospensione condizionale della pena è ammissibile, in caso di nuova condanna, soltanto se tra quest’ultima e la prima condanna a pena sospesa non sopravvengano condanne intermedie, poiché, in caso contrario, l’accertata proclività a delinquere del condannato dimostra che lo stesso è stato immeritevole della fiducia in lui riposta e non consente una nuova prognosi favorevole circa la sua futura condotta (Sez. 6, n. 1647 del 12/11/2019, 16/01/2020, Rv. 278100; Sez. 4, n. 8833 del 1994, Rv. 200128 e Sez. 6, n. 8167 del 1996, Rv. 205558).
10. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, di 3.000 Euro in favore della Cassa delle Ammende.
L’imputato, infine, deve essere condannato alla refusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla costituita parte civile, nella misura indicata nella depositata nota spese, pari a Euro 3.015, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Condanna inoltre l’imputato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituta parte civile, che liquida in Euro 3.015, oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.
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