La polizia giudiziaria aveva accertato che il titolare del permesso di porto d’armi, durante una battuta di caccia, aveva sparato alcuni colpi col suo fucile; a distanza di qualche minuto aveva passato la sua arma all’amico, non titolare di porto d’armi, che, a sua volta, esplodeva un colpo in aria venendo anche filmato dall’amico.
Per i giudici deve escludersi la ricorrenza di una giustificazione nella condotta, posto che l’arma non solo transitò temporaneamente nella disponibilità del soggetto non abilitato ma venne anche da costui utilizzata, mentre il titolare del permesso lo riprendeva con il proprio cellulare. Va dunque esclusa la ricorrenza di una azione meramente dimostrativa e va ritenuta pienamente integrata la fattispecie incriminatrice oggetto di contestazione.
In tema di armi la legislazione è ispirata a rigore, in ragione delle potenziali conseguenze lesive di condotte poste in essere da soggetti inesperti. Il rapporto, anche temporaneo, con l’arma comporta l’obbligo della denunzia (e la verifica dei requisiti soggettivi di idoneità) anche se la detenzione deriva da affidamento, cessione o qualsivoglia altro motivo.
Nel caso esaminato vi è stato il trasferimento dell’arma, durante la battuta di caccia, dal soggetto “titolato” a quello “non titolato” che ha usato l’arma. L’uso integra illiceità del porto, atteso che non si è trattato di una semplice “esibizione” dell’arma ma di un impossessamento da parte del soggetto sprovvisto di abilitazione. A nulla rileva la compresenza del soggetto “titolato” posto che la durata apprezzabile del “rapporto diretto” tra il soggetto “non titolato” e l’arma determina la fuoriuscita di questa dalla sfera di controllo del legittimo detentore e l’ingresso nel dominio della persona sprovvista di titolo, il che è aspetto sufficiente a concretizzare (proprio per l’assenza di una reale volontà di cessione definitiva) l’illegittimità del porto.
La volontaria cessione temporanea dell’arma a soggetto privo di titolo abilitativo ha determinato il porto abusivo della medesima – attribuito in concorso – e non una diversa figura di reato.
Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia
Cass. pen., sez. I, ud. 12 marzo 2021 (dep. 23 settembre 2021), n. 35298 – Presidente Tardio – Relatore Magi
In fatto e in diritto
1. Con sentenza emessa in data 4 febbraio 2016, il Gup del Tribunale di Palmi ha affermato la penale responsabilità di C.R. e F.A. (con condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione e 900 Euro di multa ciascuno), in riferimento al reato di cui alla L. n. 497 del 1974, artt. 12 e 14, in concorso tra loro, previo riconoscimento dell’attenuante di speciale tenuità di cui alla L. n. 895 del 1967, art. 5 e applicata la diminuente per il rito abbreviato. È stata concessa la sospensione condizionale della pena.
1.1 In fatto risulta che la polizia giudiziaria aveva accertato che, in agro di (…), il C., titolare del permesso di porto d’armi, durante una battuta di caccia, aveva sparato alcuni colpi col suo fucile; a distanza di qualche minuto aveva passato la sua arma all’amico F. – non titolare di porto d’armi- che, a sua volta, esplodeva un colpo in aria venendo anche filmato dall’amico.
2. La Corte d’Appello con sentenza del 2 aprile 2019 ha integralmente confermato la sentenza di primo grado, ritenendo i motivi d’appello infondati.
2.1 II giudice di secondo grado risulta investito di doglianze in tema di: a) insussistenza del reato in quanto si era trattato di atto goliardico o di atto compiuto per gioco; b) in subordine, illegittimo diniego di attenuanti generiche. Le conclusioni degli appellanti erano dunque per l’assoluzione -vista la mancanza dell’elemento soggettivo del reato- (in subordine, per il F. , per la riqualificazione del fatto in quello previsto nella L. n. 110 del 1975, art. 4, nonché sentenza di non doversi procedere ex art. 131 bis c.p.) o per la condanna al minimo di pena, previo riconoscimento delle attenuanti generiche. Il C. aveva prospettato, inoltre, con motivi aggiunti, la derubricazione del reato in quello previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 20 bis.
2.2 La Corte di Appello afferma, in sintesi, che quanto al punto sub a), deve escludersi la ricorrenza di una giustificazione nella condotta degli appellanti, posto che è pacifico che l’arma non solo transitò temporaneamente nella disponibilità del soggetto non abilitato (F.) ma venne anche da costui utilizzata, mentre il C. lo riprendeva con il proprio cellulare. Va dunque esclusa la ricorrenza di una azione meramente dimostrativa e va ritenuta pienamente integrata la fattispecie incriminatrice oggetto di contestazione.
2.3 Quanto al punto sub b), si afferma che già il giudice di prime cure ha esposto le fondate ragioni che hanno portato alla non concessione delle attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., valutando in particolare le rischiose modalità esecutive della condotta. Del resto, l’applicazione dell’art. 5 della Legge del 1967 consente di rendere la sanzione proporzionata al fatto. Quanto alle richieste subordinate, la Corte non accoglie le richieste di derubricazione perché, nonostante l’azione di cessione di arma da soggetto titolare di porto d’armi a soggetto di ciò sprovvisto, si sia estrinsecata in modo temporaneo, l’azione ha integrato gli estremi del reato contestato, seppur con l’attenuante della L. n. 895 del 1967, art. 5. Sul punto richiama precedenti di legittimità che hanno ritenuto integrata la cessione temporanea in casi analoghi. Sulla richiesta di applicazione dell’art. 131 bis c.p., introdotta dal F. , richiamata la natura giuridica della particolare causa di non punibilità, la Corte ribadisce che le concrete modalità d’azione dei due soggetti non fanno propendere per la particolare tenuità e la conseguente esigua entità del danno o del pericolo. Oltretutto, la difesa non ha addotto e specificato, sul punto, concreti elementi a sostegno di questa richiesta.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione – nelle forme di legge – C.R., articolando due motivi.
3.1 Al primo motivo si deduce erronea applicazione di legge e assoluta mancanza di motivazione con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto. Le circostanze di fatto come ricostruite in sede di merito non permettono di addivenirsi all’affermazione per cui si sarebbe trattato di una “cessione” in senso proprio, in senso giuridico e penalmente rilevante, del fucile. La condotta di porto dell’arma esigerebbe l’esercizio di un potere di fatto sull’arma, non di un momentaneo rapporto di pochi minuti sotto il diretto controllo del soggetto titolato. La sentenza della Corte d’Appello non spende argomenti riguardo la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo al C.; non vi è prova della consapevolezza di quest’ultimo della mancanza del titolo abilitativo dell’amico F. .
3.2 Al secondo motivo si deduce assoluta mancanza di motivazione con riferimento alla richiesta di derubricazione del reato contestato in quello previsto dalla L. n. 110 del 1975, art. 20 bis, comma 1 e 3. La Corte non ha confutato la validità della proposta difensiva, cioè a dire la qualificazione del fatto come previsto nel suddetto art. 20 che parla di “consegna” dell’arma a soggetto minorenne o a persona anche parzialmente incapace, a tossicodipendenti o a-persone o a persone impedite nel maneggio, nel contesto di luoghi in cui può svolgersi l’attività venatoria.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi addotti, tesi ad ottenere rivalutazioni su punti adeguatamente scrutinati in sede di merito.
4.1 Ed invero, quanto alla conformità tra fatto concreto e fattispecie oggetto di contestazione (dedotta al primo motivo di ricorso), questa Corte di legittimità – in casi analoghi – si è già espressa, ritenendola sussistente (v. Sez. I n. 20186 del 2018). Va premesso che in tema di armi la legislazione è ispirata ad un condivisibile rigore, in ragione delle potenziali conseguenze lesive di condotte poste in essere da soggetti inesperti. Il rapporto, anche temporaneo, con l’arma – purché di durata apprezzabile comporta l’obbligo della denunzia (e la verifica dei requisiti soggettivi di idoneità) anche se la detenzione deriva da affidamento, cessione o qualsivoglia altro motivo (così Sez. I n. 3490 del 26.9.1986, rv 175396; Sez. I n. 6912 del 29.4.1992, rv 190557).
4.2 Ora, il caso in esame – per come congruamente ricostruito in sede di merito ha visto il trasferimento dell’arma, durante la battuta di caccia, dal soggetto “titolato” a quello “non titolato”. Costui ha adoperato l’arma. Ciò, effettivamente, attribuisce al fatto – come si è ritenuto in sede di merito caratteri di illiceità del porto, atteso che non si è trattato di una semplice “esibizione” dell’arma ma di un – sia pur temporaneo – impossessamento da parte del soggetto sprovvisto di abilitazione. A nulla rileva, sul punto, la compresenza del soggetto “titolato”, ribadita nel ricorso, posto che la durata apprezzabile del “rapporto diretto” tra il soggetto “non titolato” e l’arma determina la fuoriuscita di questa dalla sfera di controllo del legittimo detentore e – specularmente – l’ingresso nel dominio volontaristico della persona sprovvista di titolo, il che è aspetto sufficiente a concretizzare (proprio per l’assenza di una reale volontà di cessione definitiva) l’illegittimità del porto.
4.3 Quanto al secondo motivo, la prospettazione difensiva non risulta conforme al testo della decisione, posto che la Corte di merito ha motivato circa l’inquadramento tipico del fatto, in ciò escludendo la ricorrenza – in modo pienamente condivisibile – di ipotesi di reato diverse e meno gravi. La volontaria cessione temporanea dell’arma a soggetto privo di titolo abilitativo ha determinato il porto abusivo della medesima – attribuito in concorso – e non una diversa figura di reato. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue ai sensi dell’art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, la condanna al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende che stimasi equo determinare in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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