Dopo la fine della relazione, un uomo aggrediva la ex e le cagionava lesioni personali aggravate dai motivi futili o abietti. L’imputato buttava per terra la persona offesa, le dava una testata e poi la sbatteva contro un muro.
Secondo l’accusa, le lesioni erano il frutto dello spirito punitivo nutrito nei confronti della donna, considerata come una propria appartenenza: la spinta ad agire appariva assolutamente sproporzionata all’entità del fatto provocato.
La giurisprudenza ha chiarito che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione.
Questa interpretazione sottolinea espressamente “la centralità del principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, che vale a giustificare la connotazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha condiviso una relazione sentimentale (nel caso di specie, cessata)”.
Pertanto, va ribadito che l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi deve svolgersi con metodo bifasico: in primo luogo, richiede la verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, e, poi, la verifica del dato soggettivo, costituito dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale.
Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 3 – 29 luglio 2020, n. 23075 – Presidente Sabeone – Relatore De Marzo
Ritenuto in fatto
1. Per quanto ancora rileva, alla luce del motivo di ricorso, con sentenza del 13/06/2019, la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado, con riguardo alla affermazione di responsabilità di St. De Sa., in relazione al reato di cui agli artt. 582, 583, 577, cod. pen.
La Corte territoriale, in particolare, ha osservato che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 1, cod. pen., non poteva essere esclusa, in quanto le lesioni, cagionate dall’imputato dopo la fine della relazione con la persona offesa, erano il frutto dello spirito punitivo nutrito nei confronti della donna, considerata come una propria appartenenza: la spinta ad agire, in definitiva, era priva di quella minima consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logicamente accettabile con l’azione commessa, talché essa appariva assolutamente sproporzionata all’entità del fatto.
2. Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, con il quale si lamenta inosservanza o erronea applicazione dell’art. 61, n. 1, cod. pen., tenuto conto che, alla luce della giurisprudenza di legittimità, non può configurare motivo abietto o futile la gelosia, ancorché collegata ad un abnorme desiderio di vita comune. Si aggiunge che, in ogni caso, la condotta aveva provocato lesioni guaribili in tre giorni.
Considerato in diritto
1. La doglianza è infondata.
Questa Corte ha avuto modo di chiarire di recente che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione (Sez. 1, n. 49673 del 01/10/2019, P, Rv. 27808202; Sez. 5, n. 44319 del 21/05/2019, M, Rv. 27696201).
Proprio quest’ultima decisione, superando sfumature linguistiche che hanno accompagnato in passato, nella giurisprudenza di questa Corte, un non esplicito superamento di posizioni ormai lontane dalla coscienza collettiva, sottolinea espressamente – e in termini condivisi dal Collegio – la centralità del principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, che vale a giustificare la connotazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha condiviso una relazione sentimentale (nel caso di specie, cessata).
Tale conclusione si inserisce nella più ampia cornice alla stregua della quale l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi, dovendo svolgersi con metodo bifasico, richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, e del dato soggettivo, costituito dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (Sez. 5, n. 45138 del 27/06/2019, Vetuschi, Rv. 27764101).
Ora, razionalmente tali principi hanno trovato applicazione nel caso di specie, in cui l’imputato, secondo l’accertamento dei giudici di merito, ha buttato per terra la persona offesa, le ha dato una testata e poi l’ha sbattuta contro un muro.
2. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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