Non è che una donna non apprezzi più di essere corteggiata. Il problema è il modo e l’autodeterminazione. Se una donna (o un uomo) dice “no”, vuol dire “no”, non altro. Non è pudica reticenza, è manifestare liberamente di non apprezzare il corteggiamento.
Questo è quanto non ha compreso l’uomo condannato per il reato di molestie in danno di una donna che lavorava in un bar.
I giudici hanno precisato che la petulanza – richiesta dalla fattispecie incriminatrice – è un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua ed inopportuna nell’altrui sfera di libertà. La pluralità di azioni di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato.
Nel caso in esame, “le condotte accertate, inizialmente qualificate nel prisma delittuoso degli atti persecutori, si inscrivono senza dubbio nel paradigma di tipicità del reato di molestie, sotto un profilo squisitamente oggettivo: i saluti insistenti e confidenziali, con modalità invasive della sfera di riservatezza altrui (in un’occasione abbracciandola); gli incontri non casuali e cercati nel bar dove lavorava la vittima (in cui l’imputato entrava ripetutamente con pretesti, senza consumare nulla, ma con il solo scopo di incontrare la persona offesa e tentare approcci con lei), come anche per strada, in un’occasione inseguendola e salendo sul suo stesso autobus; la sosta sotto la sua casa; la manifesta rappresentazione della vittima al ricorrente di non gradire tali atteggiamenti di corteggiamento petulante ed ossessivo e, ciononostante, la perseveranza di questi nel reiterarli inducono a ritenere del tutto corretta la configurazione del reato di molestie nel comportamento dell’imputato, pur in assenza di atteggiamenti aggressivi o in qualsiasi modo violenti”.
Per configurare il reato, ricordano i giudici, è necessario solo che si realizzi “un’effettiva e significativa intrusione nell’altrui sfera personale” che assurga al rango di molestia o disturbo, ingenerati dall’attività di comunicazione in sé considerata, ed anche a prescindere dal suo contenuto.
Il caso in scrutinio configura il reato giacché l’uomo tentava di instaurare un rapporto comunicativo e confidenziale con la vittima, che non lo conosceva e non intendeva avere relazioni di alcun genere con lui, mediante una condotta di petulante reiterazione di diffuse sequenze di saluto e contatto, con intromissione continua e sgradita nella vita della persona destinataria dei suoi comportamenti e lesione della sua sfera di libertà.
In breve può affermarsi che configura il reato di molestie un corteggiamento ossessivo e petulante, volto ad instaurare un rapporto comunicativo e confidenziale con la vittima, manifestamente a ciò contraria, realizzato mediante una condotta di fastidiosa, pressante e diffusa reiterazione di sequenze di saluto e contatto, invasive dell’altrui sfera privata, con intromissione continua, effettiva e sgradita nella vita della persona offesa e lesione della sua sfera di libertà.
Dal punto di vista soggettivo è sufficiente la coscienza e volontà della condotta, accompagnata dalla consapevolezza della oggettiva idoneità di quest’ultima a molestare o disturbare, senza valida ragione, il soggetto che la subisce, mentre non rileva la ricerca delle eventuali pulsioni motivazionali dalle quali il soggetto attivo sia stato spinto ad agire, le quali, proprio perché attinenti alla sola sfera dei motivi, non hanno incidenza alcuna sulla finalità oggettiva e penalmente rilevante dall’azione, in relazione alla quale si configura il dolo.
L’uomo è stato condannato al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa, in quattromila euro.
Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia
annalisa.gasparre@gmail.com
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