L’imputato è stato condannato per essersi impossessato della somma di Euro 50 che era all’interno della borsa di un operatore sanitario, borsa custodita nell’ufficio (chiuso al pubblico) della caposala del reparto di chirurgia. L’imputato si era introdotto nell’ufficio senza esserne autorizzato e approfittando del fatto che la porta non era chiusa a chiave.
Condannato dai giudici di merito, l’imputato sosteneva che il luogo non rientrava nella nozione di privata dimora, con l’effetto di qualificare il furto come “semplice” e non aggravato e che, inoltre, il diritto di esclusione dal luogo non era della vittima ma della caposala. Considerazioni difensive, queste, che non colgono nel segno.
La Corte di cassazione ha infatti chiarito che ai fini della configurabilità del reato di furto in abitazione, rientrano nella nozione di privata dimora i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico nè accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale. Può inoltre essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento).
Nel caso in esame l’imputato si era introdotto in un locale non aperto al pubblico e destinato al solo personale. Neppure rileva che la porta non fosse chiusa a chiave.
Non muta il titolo di reato la circostanza che il bene sottratto non fosse di proprietà della persona che poteva consentire o escludere l’accesso (la caposala) perché ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato di furto in abitazione è che il fatto sia stato commesso in uno dei luoghi di privata dimora, a prescindere dalla circostanza che il soggetto passivo del reato non sia la medesima persona legittimata a consentirvi l’accesso.
L’imputato ha pure lamentato che il danno fosse di speciale tenuità (50 euro che peraltro ha fatto cadere perché sorpreso dalla vittima), ma i giudici precisano che l’attenuante del danno di specialità tenuità non riguarda solo il valore in sé della cosa sottratta ma anche quello complessivo del pregiudizio arrecato con l’’zione criminosa, valutando i danni ulteriori che la persona offesa abbia subito in conseguenza della sottrazione della cosa, quando essi siano direttamente ricollegabili al reato.
Avv. Annalisa Gasparre – foro di Pavia – Specialista in Diritto Penale
Cass. pen., sez. V, ud. 26 ottobre 2022 (dep. 26 gennaio 2023), n. 3415 – Presidente Zaza – Relatore Francolini
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 12 aprile 2021 la Corte di appello di Napoli, a seguito del gravame interposto nell’interesse di E.A., ha confermato la pronuncia in data 15 giugno 2021 con la quale il Tribunale di Napoli, all’esito di giudizio abbreviato, aveva affermato la responsabilità dello stesso imputato per il delitto di furto in abitazione (commesso il (omissis) ) e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, lo aveva condannato alla pena di due anni di reclusione ed Euro 620 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e con la confisca delle res in sequestro).
L’imputato è stato ritenuto responsabile di essersi impossessato della somma di Euro 50 che era all’interno della borsa di un operatore sanitario (M.G.) – custodita nell’ufficio (chiuso al pubblico) della caposala del reparto di chirurgia dell’Ospedale (omissis), nel quale l’E. si è introdotto -, così sottraendola alla persona offesa, lasciando poi cadere la banconota nel corso della fuga (poiché sorpreso dalla vittima).
2. Avverso la sentenza di secondo grado è stato proposto ricorso per cassazione nell’interesse dell’imputato, formulando tre motivi (di seguito esposti, nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.).
2.1. Con il primo motivo sono stati prospettati la violazione della legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla qualificazione del fatto dell’imputato come furto in abitazione ex art. 624-bis c.p. e non anche come furto ex art. 624 c.p. La Corte territoriale avrebbe acriticamente aderito alla qualificazione giuridica data al fatto dal Giudice di primo grado, evidenziando che esso è stato commesso all’interno dell’ufficio della caposala, ufficio non aperto al pubblico e destinato esclusivamente al personale. Tuttavia, non avrebbe considerato che l’ufficio è sito all’interno di un plesso operatorio, luogo non riservato esclusivamente al personale sanitario e che la porta non era chiusa a chiave (con conseguente accessibilità a qualsiasi soggetto). Inoltre, all’operatore sanitario che è stato offeso dal reato non può riconoscersi lo ius excludendi alios in ordine allo stesso ufficio (proprio invece della caposala), il che – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità sarebbe presupposto necessario perché un luogo possa qualificarsi privata dimora.
2.2. Con il secondo motivo sono stati denunciati la violazione della legge penale segnatamente dell’art. 62, comma 1, n. 4 c.p. – e il vizio di motivazione, in relazione alla esclusione dei presupposti della circostanza attenuante dell’aver cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità. La Corte territoriale avrebbe rigettato in parte qua il gravame, facendo riferimento all’entità non esigua della somma sottratta e al dolo che avrebbe sorretto l’azione. In tal modo, avrebbe erroneamente omesso la valutazione di profili oggettivi (l’esiguità della somma e la restituzione di essa) e valorizzato profili soggettivi con riferimento a una circostanza di carattere oggettivo.
2.3. Con il terzo motivo sono state addotte la violazione degli artt. 99, comma 4, e 62-bis c.p. e il vizio di motivazione, in relazione all’applicazione e della recidiva reiterata e specifica, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche nella loro massima estensione e alla mancata irrogazione della pena nel minimo edittale.
In particolare, la Corte di merito avrebbe valorizzato la negativa personalità dell’imputato, rilevato come il primo Giudice sia partito da una pena detentiva pari al minimo e reso una motivazione apparente sulla sussistenza della recidiva, facendone applicazione in maniera automatica (in ragione del richiamo delle numerose condanne – l’ultima risalente al 2013 – riportate dell’E. e della disponibilità in capo allo stesso di un coltello di piccole dimensioni), non argomentando invece sulla relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da lui commesso (in rapporto alla natura e al tempo dei primi).
Inoltre, con riferimento alle circostanze attenuanti generiche – che pure hanno un ruolo decisivo nel riequilibrare il trattamento sanzionatorio – varrebbero le medesime argomentazioni spese dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 55/2021, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 69, comma 4, c.p., come sostituito della L. n. 251 del 2005 art. 3, nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p., sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p..
Infine, non sarebbero state considerate le condizioni economiche in cui versava l’imputato, la restituzione della banconota sottratta e l’ammissione degli addebiti; e la Corte di appello, in ordine alla dosimetria della pena, si sarebbe limitata a richiamata la decisione del primo Giudice senza fornire adeguata motivazione in ordine al mancata riduzione della pena.
Considerato in diritto
Il ricorso è nel complesso infondato e deve essere rigettato.
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Difatti:
– “ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis c.p., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico nè accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale” (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076 – 01);
– può “essere riconosciuto il carattere di privata dimora ai luoghi di lavoro se in essi, o in parte di essi, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato e precludendo l’accesso a terzi (ad esempio, retrobottega, bagni privati o spogliatoi, area riservata di uno studio professionale o di uno stabilimento)” (ivi; cfr. pure Sez. 4, n. 37795 del 21/09/2021, Bosio, Rv. 281952 – 01; Sez. 4, n. 18793 del 28/03/2019, Macaluso, Rv. 275762 – 01; Sez. 5, n. 34475 del 21/06/2018, Tako, Rv. 273633 – 01);
– nel caso in esame risulta – e non è stato addotto sul punto alcun travisamento della prova – che l’imputato ha sottratto la banconota dalla borsa di un operatore sanitario custodita in un locale non aperto al pubblico (ufficio della caposala) e destinato esclusivamente al personale (in particolare, non accessibile a terzi senza il consenso della stessa caposala);
– la difesa ha censurato la qualificazione giuridica del fatto evidenziando come la porta del locale non fosse chiusa a chiave, dato che ex se non ne determina l’accessibilità a quisque de populo (senza che occorra dilungarsi per evidenziare che, come esposto nella sentenza impugnata, esso solo occasionalmente non fosse chiuso a chiave), e come esso fosse ubicato all’interno di un plesso operatorio, elemento che non incide sulla libera accessibilità a quello specifico ambiente senza il consenso del titolare; ed ancora ha erroneamente assunto che il fatto debba essere riqualificato ai sensi dell’art. 624 c.p. sol perché il bene oggetto di apprensione non era stato di proprietà della medesima persona che poteva consentire ai terzi di accedere, profilo che invece nulla muta poiché quel che rileva sub specie dell’art. 624-bis c.p. è che il fatto sia stato commesso in uno dei luoghi di privata dimora, nei termini sopra chiariti, a prescindere dalla circostanza che il soggetto passivo del reato non sia la medesima persona legittimata a consentirvi l’accesso.
2. Il secondo motivo è infondato.
Invero:
– “la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità ha carattere oggettivo ed ai fini della sua applicazione occorre considerare non solo il valore in sé della cosa sottratta, ma anche quello complessivo del pregiudizio arrecato con l’azione criminosa, valutando i danni ulteriori che la persona offesa abbia subito in conseguenza della sottrazione della res, quando essi siano direttamente ricollegabili al reato” (Sez. 5, n. 4028 del 19/12/2018 – dep. 2019, Biscotti, Rv. 275485 – 01);
– essa ricorre solo “quando il danno patrimoniale subito dalla parte offesa come conseguenza diretta e immediata del reato sia di valore economico pressoché irrilevante” (cfr. Sez. 2, n. 15576 del 20/12/2012 – dep. 2013, Mbaye, Rv. 255791 – 01; cfr. pure Sez. 2, n. 50660 del 05/10/2017, Calvio, Rv. 271695 – 01, secondo cui “l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, n. 4, c.p. presuppone che il pregiudizio causato sia di valore economico pressoché irrisorio, sia quanto al valore in sé della cosa sottratta, che per gli ulteriori effetti pregiudizievoli subiti dalla parte offesa”);
– e la sussistenza dei presupposti dell’attenuante richiede “un giudizio complesso che prenda in considerazione tutti gli elementi della fattispecie concreta necessari per accertare non il solo danno patrimoniale, ma il danno criminale nella sua globalità” (Sez. 5, n. 344 del 26/11/2021 – dep. 2022, Ghirasam, Rv. 282402 – 01), dovendosi avere riguardo “anche al pregiudizio complessivo e al disvalore sociale recati con la condotta dell’imputato, in termini effettivi o potenziali” (Sez. 3, n. 18013 del 05/02/2019, Loussaief, Rv. 275950 – 01).
Nel caso in esame, la Corte territoriale – al di là del richiamo alla freddezza e alla proclività delinquere dell’imputato, profili soggettivi non rilevanti in relazione alla sussistenza della circostanza in discorso – ha comunque dato conto – oltre che dell’entità della somma sottratta – delle modalità dell’azione (ossia al fatto che l’imputato abbia agito all’interno di una struttura sanitaria, frugando tra i beni personali custoditi nel detto locale, approfittando dell’assenza della caposala e degli operatori sanitari durante il loro turno di lavoro), così attribuendo al fatto nel complesso – in maniera congrua e logica e conforme alla legge penale – un disvalore non di speciale tenuità.
3. Il terzo motivo è inammissibile, sotto diversi profili.
Quanto alla recidiva reiterata e specifica, la Corte territoriale non ha reso con evidenza una motivazione apparente ma ha ritenuto che il fatto in imputazione – nonostante il più prossimo dei precedenti per furto riportati dall’imputato si collochi nel 2013 – ne abbia palesato una maggiore pericolosità alla luce delle specifiche modalità del suo agire criminoso (già sopra richiamato), valorizzando pure il fatto che egli – al momento dell’arresto in flagranza per il reato – disponesse di strumenti atti allo scasso e alla disattivazione di antifurti elettronici, così rendendo apprezzamento di merito logico e conforme a diritto (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, Franco, Rv. 274782 – 01), con cui il ricorso non si confronta effettivamente (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 – 01).
Quanto alla esclusione della prevalenza della recidiva, correttamente confermata dalla Corte di appello ai sensi dell’art. 69, comma 4, c.p., deve anzitutto evidenziarsi la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente, nella parte in cui non consentirebbe il giudizio di prevalenza, rispetto alle ipotesi di recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p., delle circostanze attenuanti generiche. A fronte del mero riferimento, da parte della difesa, della sentenza costituzionale n. 55 del 24/02/2021 che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., l’art. 69, comma 4, c.p., cit., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p., sulla recidiva di cui all’art. 99, comma 4, c.p., è sufficiente osservare che:
– tale statuizione del Giudice delle leggi – richiamando la propria giurisprudenza – ha ribadito che, “in generale, (…) deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato dall’art. 69 c.p., sono (…) costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, (…) sempre che non “trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio” (sentenze n. 205 del 2017 e n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo in alcun caso giungere “a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale” (sentenze n. 73 del 2020 e n. 251 del 2012)”; ed è pervenuta all’appena menzionata declaratoria di illegittimità costituzionale sulla scorta del “carattere tutt’affatto particolare della diminuente” prevista dall’art. 116 c.p. per il concorso anomalo nel reato;
– ragion per cui – rispetto all’allegazione difensiva, che ha apoditticamente equiparato le circostanze attenuanti generiche alla distinta ipotesi di cui all’art. 116 c.p. – basti qui ribadire che, come condivisibilmente già affermato da questa Corte (proprio alla luce della giurisprudenza costituzionale, come esposto, richiamata pure dalla sentenza invocata dalla difesa) – è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3,25 e 27 Cost., dell’art. 69, comma 4, c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, c.p., in quanto tale deroga alla ordinaria disciplina del bilanciamento “incide, secondo le regole ordinarie, esclusivamente fino ad un terzo dei limiti edittali, e la sua applicazione, quindi, non dà luogo ad una manifesta sproporzione del trattamento sanzionatorio, ma si limita a valorizzare, in misura contenuta, la componente soggettiva del reato, qualificata dalla plurima ricaduta del reo in condotte trasgressive di precetti penalmente sanzionati” (Sez. 6, n. 16487 del 23/03/2017, Giordano, Rv. 269522 – 01; Sez. 6, n. 50037 del 03/12/ 2015, n. 50037, Mattioli).
Tanto più che con riferimento alla pena detentiva la questione sarebbe irrilevante, atteso che essa è stata irrogata in misura inferiore al minimo edittale, erroneamente individuato dal primo Giudice (che poi lo ha ridotto ex art. 442, comma 2, c.p.p.) in tre anni di reclusione, laddove per il delitto in imputazione – commesso il (omissis) esso era già stato elevato a quattro anni (cfr. art. 5, comma 1, lett. a), L. 26 aprile 2019, n. 36).
Infine, le censure relative alla mancata irrogazione della pena nel minimo edittale sono manifestamente infondate, per quanto appena esposto, a proposito della pena detentiva e comunque inammissibili in relazione alla pena pecuniaria, determinata – prima della riduzione per il rito – in Euro 930 di multa (rispetto al minimo di Euro 927), la Corte di merito ha affermato la congruità della pena irrogata dal Tribunale facendo riferimento, ai sensi dell’art. 133 c.p. alle modalità del fatto e alla personalità dell’imputato, così esplicitando comunque – a fronte di una pena quasi corrispondente al minimo per cui non era necessaria una motivazione specifica (cfr. Sez. 5, n. 35100 del 27/06/2019, Torre, Rv. 276932 – 01; Sez. 5, n. 11329 del 09/12/2019 – dep. 2020, Retrosi, Rv. 278788 – 01; Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288 – 01) – gli elementi che ha ritenuto preponderanti e così rendendo un’argomentazione in questa sede non censurabile (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 – 02; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 – 01; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Ferrarlo, Rv. 259142 – 01).
4. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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