La cassetta delle elemosine di una chiesa era stata presa di mira e un uomo si era impossessato del contenuto (euro 136) utilizzando uno strumento alla cui estremità era attaccata carta biadesiva.
È stato condannato per furto pluriaggravato a) dall’utilizzo di mezzo fraudolento e b) dall’esposizione alla pubblica fede.
I giudici hanno ritenuto che la destinazione della refurtiva fosse implicita dal luogo dove era avvenuto il furto.
Delitto che i giudici ritengono consumato e non solo tentato, nonostante il sagrestano fosse testimone del fatto, perché “il criterio distintivo tra consumazione e “tentativo” risiede proprio nella circostanza che l’imputato consegua, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva …. e, nella specie, dalla descrizione delle modalità della condotta operata dai giudici di merito emerge che l’imputato si era già impossessato del denaro, rinvenuto solo a seguito di perquisizione e conseguente sequestro”.
Avv. Annalisa Gasparre – Specialista in Diritto penale – avvocatoannalisagasparre@gmail.com
Cass. pen., sez. IV, ud. 5 ottobre 2021 (dep. 28 ottobre 2021), n. 38612 – Presidente Dovere – Relatore Cappello
Ritenuto in fatto
2. L’imputato ha proposto ricorso, mediante difensore, formulando quattro motivi. Con il primo, ha dedotto mancanza di motivazione e/o inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione alla aggravante del mezzo fraudolento, che ritiene non integrata dall’impiego di carta biadesiva, utilizzata per asportare le banconote. In particolare, assume la difesa che il maggior disvalore del fatto deve essere direttamente funzionale alla perpetrazione del furto, dovendosi individuare un tratto specializzante rispetto alle ordinarie modalità; a fronte delle argomentazioni svolte con l’appello, la Corte territoriale si sarebbe limitata, secondo il deducente, a far proprie le considerazioni svolte dal Tribunale. Con il secondo, ha dedotto analogo vizio, questa volta con riferimento alla aggravante della esposizione alla pubblica fede, rilevando che i giudici territoriali non avrebbero indicato quale delle tre ipotesi previste dalla norma ricorrerebbe nella specie. Con un terzo motivo, ha dedotto mancanza e/o inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla mancata qualificazione del fatto in termini di tentativo, la refurtiva non essendo mai uscita dalla sfera di vigilanza e controllo della persona offesa, poiché il L. era stato osservato dal sacrestano che lo aveva poi fermato immediatamente. Infine, con un quarto motivo, la difesa ha dedotto inosservanza e erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione, quanto al diniego dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, per avere il L. immediatamente restituito il denaro.
3. Il Procuratore generale, in persona del sostituto , ha rassegnato conclusioni, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
4. Anche la difesa ha rassegnato conclusioni scritte, con le quali ha sviluppato le difese svolte con i motivi di ricorso, insistendo per l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altro giudicante.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. La Corte territoriale ha ritenuto correttamente contestate le aggravanti, oggetto delle censure di cui ai due primi motivi, descrivendo, quanto all’uso del mezzo fraudolento, lo stratagemma approntato dal L. per prelevare il denaro dalla cassetta delle offerte; e rilevando, quanto alla seconda, che la presenza del sacrestano non aveva influito sulla modalità dell’azione, per come contestata, nè sulla destinazione dei beni sottratti. L’importo e la natura del bene sottratto, poi, non consentivano di riconoscere l’attenuante invocata, laddove – di contro – l’immediata restituzione del denaro, in uno con la incensuratezza dell’imputato avevano giustificato il riconoscimento di un più favorevole giudizio di bilanciamento delle aggravanti con le generiche.
3. Deve intanto precisarsi che, in caso di conformità delle sentenze dei due gradi di merito (come nella specie, essendo la riforma intervenuta solo sul giudizio di bilanciamento delle circostanze), le motivazioni – fondendosi – si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile, al quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei, rispetto a quelli utilizzati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità (cfr. sez. 1 n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250; sez. 3 n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615); e ricordarsi, altresì, che la funzione tipica dell’impugnazione è quella di una critica argomentata al provvedimento che si realizza, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.), attraverso la presentazione di motivi che devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Pertanto, il contenuto essenziale dell’atto d’impugnazione è indefettibilmente il confronto puntuale, con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso, con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta (cfr., in motivazione, sez. 6 n. 8700 del 21/1/2013, Rv. 254584; Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822, sui motivi d’appello, ma i cui principi possono applicarsi anche al ricorso per cassazione). 4. Il primo motivo è manifestamente infondato. Premesso che le circostanze aggravanti dell’utilizzo del mezzo fraudolento e della esposizione del bene alla pubblica fede possono concorrere tra loro, non essendo ontologicamente incompatibili (cfr. sez. 5, n. 11397 del 9/12/2020, dep. 2021, Peverello Maurizio, Rv. 280730), secondo il diritto vivente ricorre la prima in presenza di qualunque azione insidiosa, improntata ad astuzia o scaltrezza, atta a soverchiare o sorprendere la contraria volontà del detentore della cosa, eludendo gli accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa della stessa (cfr. sez. 5, n. 32847 del 3/4/2019, Lazzari Pamela, Rv. 276924 e sez. 4, n. 8128 del 31/1/2019, Canzian Silvia, Rv.275215 che riprendono i principi già fissati in Sez. unite, n. 40354 del 18/7/2013, Sciuscio, Rv. 255974). Nella specie, le censure difensive non tengono conto della descrizione della condotta e dell’utilizzo di uno strumento creato ad hoc per superare l’ostacolo rappresentato dal contenitore del denaro.
5. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato. In merito alla aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7, premesso che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 7, non è necessaria la volontà del proprietario o possessore di esporre il bene alla pubblica fede, potendo tale esposizione derivare anche da una condizione originaria della cosa e non dall’opera dell’uomo (cfr. sez. 4, n. 25042 del 6/4/2021, Lopreti Giovanni, Rv. 281435; n. 11158 del 14/2/2019, Chiaravalloti Claudio, Rv. 275276), va pure precisato che, stante la ratio dell’aggravamento della pena (non correlata, cioè, alla natura – pubblica o privata del luogo ove si trova la “cosa”, ma alla condizione di esposizione di essa alla “pubblica fede”), essa ricorre anche se la cosa si trovi in luogo privato cui, per mancanza di recinzioni o sorveglianza, si possa liberamente accedere (cfr. sez. 2, n. 29171 del 8/9/2020, Di Stefano Flavio, Rv. 279774). Tanto premesso, deve osservarsi che la difesa si è limitata ad asserire che i giudici territoriali non avrebbero specificato in quale delle tre, diverse ipotesi previste dalla norma si versasse, laddove il maggior disvalore del fatto è stato collegato espressamente alla destinazione dei beni oggetto del furto (il riferimento è, infatti, contenuto nella pag. 3 della sentenza censurata). Poiché trattasi di furto perpetrato all’interno di una chiesa, detta destinazione è con tutta evidenza correlata alla finalità di consentire la raccolta delle offerte dei fedeli e al libero accesso a costoro garantito all’interno del luogo di culto. Del tutto eccentrico appare, poi, il richiamo al precedente menzionato alla pag. 4 del ricorso, stante la diversità della situazione fattuale ivi considerata (essendo stata custodita la cassetta delle elemosine in una stanza protetta da un cancello allarmato, a causa di altri tentativi di furto, cfr. sez. 5, n. 55785 del 14/9/2018 in motivazione); laddove nel secondo precedente richiamato alla pag. 5 dell’impugnazione non risulta formulato alcun principio di diritto che superi il costante orientamento sopra richiamato, seguito anche nel caso in esame, l’affermazione del giudice di merito non avendo costituito oggetto di gravame in sede di legittimità (cfr. sez. 4 n. 21816 del 7/2/2019, in motivazione).
6. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato. La difesa ha erroneamente interpretato il principio per il quale il monitoraggio della azione furtiva in essere, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza ovvero delle forze dell’ordine presenti nel locale ed il conseguente intervento difensivo “in continenti”, impedisce la consumazione del delitto di furto che resterebbe così allo stadio del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo (cfr. Sez. un., n. 52117 del 17/7/2014, Pg in proc. Prevete e altro, Rv. 261186). Infatti, il criterio distintivo tra consumazione e tentativo risiede proprio nella circostanza che l’imputato consegua, anche se per breve tempo, la piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva (cfr. sez. 5, n 48880 del 17/9/2018, Rv. 274016) e, nella specie, dalla descrizione delle modalità della condotta operata dai giudici di merito emerge che l’imputato si era già impossessato del denaro, rinvenuto solo a seguito di perquisizione e conseguente sequestro.
7. Infine, è manifestamente infondato anche il quarto motivo. A fronte degli elementi evidenziati nella sentenza appellata, parte ricorrente si è limitata a sostenere la riconoscibilità dell’attenuante alla stregua del fatto che il denaro era stato immediatamente restituito. Trattasi, però, di argomento che prescinde dalla entità del danno e che non tiene in considerazione quanto affermato dalla stessa Corte d’appello a proposito della natura del bene sottratto; ma che, soprattutto, disattende quanto già da tempo chiarito dalla giurisprudenza di legittimità. L’attenuante in parola, infatti, riguarda l’entità della diminuzione patrimoniale cagionata direttamente dall’azione del colpevole nel momento della consumazione del reato, con esclusione di ogni altro elemento o circostanza successivi al reato medesimo. A tal fine, la durata del danno assume rilevanza solo come elemento complementare e non alternativo a quello del valore della cosa sottratta, con la conseguenza che, se la cosa è di grande valore in sé, a nulla rileva che sia stata sottratta soltanto per brevi momenti: il danno è obiettivamente grave per il solo fatto dello spossessamento, sia pur limitato nel tempo (cfr. sez. 2, n. 3167 del 28/10/2013, dep. 2014, Sorrenti, Rv. 258603). L’entità del danno cagionato alla persona offesa deve essere, dunque, verificata al momento della consumazione del reato costituendo la restituzione della refurtiva solo un post factum non valutabile a tale fine (cfr. sez. 5, n. 19728 del 11/4/2019, Ingenito Alfonso, Rv. 275922, in fattispecie in cui il bene oggetto di furto era stato sottratto per breve tempo poiché recuperato, subito dopo la commissione del reato, dalle forze dell’ordine; sez. 5, n. 13817 del 25/1/2017, Puggillo e altro, Rv. 269731, in fattispecie analoga).
4. Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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