L’imputato e la persona offesa vivevano una vita connotata da vessazioni e umiliazioni in danno della donna, che mostravano una progressiva ingravescenza verso forme di aggressività e violenza fisica divenute sistematiche, dopo il rientro della famiglia dalla Tunisia e, infine, approdate ad un grave episodio e trovando rifugio presso la Caserma dei Carabinieri dove aveva sporto denuncia.
La corte di cassazione ha ricordato come, pur avendo i giudici di merito sottoposto le dichiarazioni della vittima a un rigoroso vaglio critico, in generale, la deposizione della persona offesa può anche da sola essere assunta a prova della responsabilità dell’imputato.
Nel caso in esame, peraltro vi erano anche riscontri esterni quali le dichiarazioni rese da una vicina della coppia che aveva prestato assistenza ai figli dell’imputato che erano “fuggiti” dalla casa familiare a causa del comportamento aggressivo del padre e che le avevano riferito delle continue aggressioni subite dalla madre. Ulteriore riscontro era costituito dalla relazione di servizio redatta dai Carabinieri. Anche quando la donna stava presentando denuncia in caserma era stata raggiunta dalle numerose telefonate del marito che, in evidente stato di alterazione alcolica, aveva anche detto al carabiniere che aveva risposto al telefono di non avere paura di nessuno.
Tali riscontri esterni spiegano anche in modo convincente quali sono state le ragioni per le quali la donna vittima aveva sopportato il clima di violenza familiare trovandosi combattuta tra il timore verso il coniuge e la speranza di un miglioramento della situazione familiare: non rivela, dunque, ai fini della prospettata inverosimiglianza della ricostruzione della persona offesa, la circostanza che la stessa si sia indotta alla denuncia dopo lunghi anni di dolorosa sopportazione né il comportamento processuale (la mancata partecipazione all’udienza preliminare) che risulta neutro ai fini del giudizio di attendibilità.
I maltrattamenti in famiglia integrano un’ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. In ogni caso, si deve trattare di comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
Nel caso in esame, la convivenza era contraddistinta da un sistema abituale di sopraffazioni e umiliazioni instaurato dall’imputato nei confronti della moglie, creando in costei uno stato di sudditanza, protrattosi negli anni, sebbene le violenze fisiche fossero meno frequenti delle aggressioni verbali, ingiurie, comportamenti denigratori delle sua qualità di madre e di moglie, e delle minacce che hanno scandito negli anni la vita quotidiana della coppia.
Quanto alla presunta reciprocità, si è osservato che, a fronte delle condotte abusanti, non è certo sufficiente a determinare una situazione di reciprocità o parità la mera risposta alle offese ricevute dovendo essere dimostrate, perlomeno, violenze, offese, minacce e forme di aggressione fisica reciproche fra i due conviventi che non sono prospettabili vieppiù perché affidate alla generica linea difensiva dell’imputato che può essere definito “riduzionista” del protratto comportamento tenuto, relegato a pochi e sporadici episodi.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 9 aprile – 11 maggio 2021, n. 18316- Presidente Bricchetti – Relatore Giordano
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Brescia, in accoglimento dell’appello del Procuratore generale e disatteso quello dell’imputato, ha rideterminato, con la diminuente del rito abbreviato, in anni due, mesi quattro e giorni ventisei di reclusione la pena inflitta ad D.A. per il reato di cui all’art. 572 c.p. e art. 61 c.p., n. 11 quinquies, con la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale.
Ha, inoltre, applicato al predetto la misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata.
2. Il difensore, con motivi di ricorso di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p. denuncia:
2.1. erronea applicazione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p. ritenuta configurabile in presenza di un unico episodio di accesa discussione fra i coniugi in occasione del quale erano proferiti insulti, minacce ed offese reciproche fra i coniugi ed in esito al quale la moglie dell’imputato lo aveva denunciato; difetta dai fatti narrati dalla persona offesa il requisito della abitualità;
2.2. manifesta illogicità della motivazione incentrata sulle dichiarazioni, fortemente inattendibili della persona offesa che non aveva mai denunciato comportamenti aggressivi e violenti del marito; che non ha mai lasciato l’abitazione coniugale e neppure si è presentata all’udienza preliminare;
2.3. violazione di legge e vizio di motivazione inficiano anche l’applicazione della misura della espulsione ai sensi dell’art. 235 c.p.: la Corte di appello ha omesso di considerare che l’imputato è perfettamente integrato in Italia, svolge attività lavorativa e qui possiede una casa di abitazione. L’imputato ha tre figli cittadini italiani e non vi è prova che sia persona dedita al sistematico abuso di sostanze alcoliche.
3. Il ricorso è stato trattato con procedura scritta, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 convertito in L. 18 dicembre 2020, n. 176.
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile perché proposto per motivi generici e manifestamente infondati.
La sentenza impugnata ha motivato il giudizio di responsabilità richiamando le dichiarazioni rese dalla persona offesa che ha ricostruito il lungo mènage familiare vissuto con l’imputato e la sua progressiva ingravescenza verso forme di aggressività e violenza fisica divenute sistematiche perlomeno dall’anno 2015, dopo il rientro della famiglia dalla Tunisia, Paese di origine del marito, ed approdate ad un grave episodio durante il quale la donna era riuscita a difendersi solo allontanandosi dall’abitazione coniugale e riparando presso la Caserma dei Carabinieri dove aveva sporto denuncia.
La Corte di merito ha sottoposto le dichiarazioni rese dalla D. ad un rigoroso vaglio critico, comparandole – come era necessario – con la ricostruzione difensiva incentrata sulla insussistenza di una condizione di sistematicità delle condotte aggressive che si sarebbero risolte in sporadici episodi, peraltro contrassegnati da reciprocità di offese. La Corte di merito, in applicazione di un criterio di massima precauzione, ha sottoposto la deposizione della persona offesa, che può anche da sola essere assunta a prova della responsabilità dell’imputato, ad un vaglio positivo circa la sua attendibilità esaminandola alla stregua della serietà dei riscontri esterni che le indagini avevano consentito di acquisire e, in particolare, delle dichiarazioni rese da una vicina di casa della coppia che nell’estate del 2016 aveva prestato assistenza ai figli dell’imputato che erano “fuggiti” dalla casa familiare ai causa del comportamento aggressivo del padre e che le avevano riferito delle continue aggressioni subite dalla madre. La teste ha precisato di avere visto personalmente i lividi sulle braccia e la schiena della D. che più volte si era allontanata dall’abitazione coniugale facendovi poi ritorno con la speranza di un miglioramento della situazione e di avere assistiti:), nel luglio 2018, anche all’arrivo dei Carabinieri, chiamati dalla donna. Ulteriore riscontro veniva indicato nella relazione di servizio redatta dai Carabinieri in occasione della denuncia presentata dalla donna il l’11 ottobre 2018.
Nell’occasione la donna, mentre si trovava in caserma, veniva raggiunta dalle numerose telefonate del marito che, in evidente stato di alterazione alcolica, aveva anche detto al carabiniere che aveva risposto al telefono di non avere paura di nessuno. Le dichiarazioni rese da una teste estranea al contesto familiare e il contenuto della relazione di servizio forniscono anche una spiegazione convincente delle ragioni per le quali la D. aveva sopportato il clima di violenza familiare trovandosi combattuta tra il timore verso il coniuge (che non esitava a rivendicare di non avere paura di nessuno addirittura parlando con un carabiniere) e la speranza di un miglioramento della situazione familiare: non rivela, dunque, ai fini della prospettata inverosimiglianza della ricostruzione della persona offesa, la circostanza che la stessa si sia indotta alla denuncia dopo lunghi anni di dolorosa sopportazione nè il comportamento processuale (la mancata partecipazione all’udienza preliminare) che risulta neutro ai fini del giudizio di attendibilità.
Sulla scorta di tali contenuti dichiarativi non prestano il fianco a censure, in punto di logicità della motivazione, le valutazioni espresse dalla Corte di merito sulla ricorrenza nei fatti descritti dalla persona offesa del reato di cui all’art. 572 c.p., piuttosto che di meri litigi coniugali e reciprocità di comportamenti abusanti dei due coniugi.
I maltrattamenti in famiglia integrano, come noto, un’ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di comportamenti che acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo. Tali comportamenti possono consistere in percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche in atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. In ogni caso, si deve trattare di comportamenti idonei ad imporre alla persona offesa un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
Nel caso in esame, dalla lettura congiunta della sentenza di primo grado e di quella impugnata, emerge la descrizione di una convivenza contraddistinta da un sistema abituale di sopraffazioni e umiliazioni instaurato dall’imputato nei confronti della moglie, creando in costei uno stato di sudditanza, protrattosi negli anni, sebbene le violenze fisiche fossero meno frequenti delle aggressioni verbali, ingiurie, comportamenti denigratori delle sua qualità di madre e di moglie, e delle minacce che hanno scandito negli anni la vita quotidiana della coppia.
L’imputato ha ascritto il sistema di vita coniugale alle condizioni di reciprocità che connotavano il rapporto con la moglie ma le aggressioni, descritte dalla persona offesa e dai figli minori della coppia, vanno in tutt’altra direzione. Rileva il Collegio che, a fronte della condotte abusanti descritte, non è certo sufficiente a determinare una situazione di reciprocità o parità la mera risposta alle offese ricevute dovendo essere dimostrate, perlomeno, violenze, offese, minacce e forme di aggressione fisica reciproche fra i due conviventi che non sono prospettabili vieppiù perché affidate alla generica linea difensiva dell’imputato che, come anticipato, muove da una logica “riduzionista” del protratto comportamento tenuto, relegato a pochi e sporadici episodi.
2.Non merita sorte migliore il terzo motivo di ricorso.
L’art. 235 c.p., come sostituito dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, prevede l’espulsione dello straniero o l’allontanamento del cittadino comunitario, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni. Come noto, il presupposto per l’applicazione di tale misura è costituito dal giudizio di attuale pericolosità dell’imputato, giudizio che deve essere adeguatamente motivato dal giudice di merito alla stregua di tutte le circostanze indicate dall’art. 133 c.p., con un giudizio espresso in concreto in relazione alle specifiche situazione personali (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 23101 del 18/05/2020, Jriji Mohamed, Rv. 279388) ed alle quali non è estraneo l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente rappresentata, in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare, secondo un principio che ha trovato applicazione in relazione alla espulsione dello straniero disposta ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 86 per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 52137 del 17/10/2017, Talbi, Rv. 271257) e che costituisce espressione della verifica in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 CEDU in relazione all’art. 117 Cost. per la tutela del diritto al mantenimento del rapporto coniugale e genitoriale con la moglie italiana ed il figlio minore.
Nel caso in esame la Corte territoriale ha valorizzato a carico dell’imputato la gravità della condotta maltrattante, protrattasi per anni, verso la coniuge e che vedeva inermi spettatori anche i figli minori della coppia; il sistematico abuso di bevande alcoliche e i precedenti penali dell’imputato, attinto da svariate condanne, di cui quattro per violazione delle legge in materia di sostanze stupefacenti, una per ricettazione l’altra per lesioni, precedenti che sono valsi all’imputato l’aumento di pena per la recidiva. La motivazione del giudice del merito non solo si sottrae a rilievi in punto di logicità delle argomentazioni che fondano l’applicazione della misura di sicurezza ma si caratterizza per la completezza dell’esame con riferimento ai descritti parametri che devono orientare la decisione del giudice in materia. Sia pure in estrema sintesi la Corte di merito ha sottolineato la peculiarità del reato per cui si procede (cioè quello maltrattamenti in famiglia) per escludere la significatività dei legami familiari dell’imputato con l’Italia e la sua protratta e legale presenza nel territorio dello Stato al fine di ritenere prevalente sull’interesse generale alla sicurezza sociale, quello del singolo alla vita familiare.
3. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo liquidare come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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