Non c’è pace per i piccioni.
Tre persone sono state imputate e condannate per avere, in concorso tra loro, utilizzato piccioni vivi gettandoli nel fiume come esche per la pesca dopo averli appesi per una zampa all’amo, provocando la morte di quattro uccelli; in particolare i piccioni erano stati legati per una zampetta all’amo, quindi costretti a seguire il volo della lenza fino a venire ripetutamente catapultati nel fiume quale richiami per la cattura del pesce siluro.
Il reato di maltrattamenti di animali (art. 544 ter c.p.) punisce chi “con crudeltà” o “senza necessità” cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche.
Nel caso in esame, i giudici hanno escluso che le modalità utilizzate si connotassero per crudeltà ma hanno ritenuto integrato il requisito dell’assenza di necessità.
Secondo la difesa degli imputati, i giudici non avrebbero considerato che nell’ambito della pesca sportiva i piccioni al pari di altri volatili sono prede naturali del pesce siluro e che pertanto, così come non è censurabile la condotta posta in essere da tutti i pescatori di infilzare all’amo vermi vivi, neppure poteva essere ritenuto penalmente rilevante il praticato utilizzo dei volatili.
Si difendevano, inoltre, obiettando che non era ravvisabile l’inutilità perché la pesca, ad esclusione di quella di frodo, è attività lecita e la finalità di svago scriminerebbe la condotta, perché l’art. 19 disp. coord. c.p. esclude l’applicabilità delle disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia pesca, allevamento, trasporto e macellazione degli animali.
Ma le argomentazioni della difesa sono infondate.
La corte di cassazione, infatti, precisa che l’art. 544 ter c.p., introdotto dalla legge 20 luglio 2004, n. 189, costituisce una norma profondamente innovativa rispetto al preesistente sistema, indotta dalla necessità di adeguare la disciplina penale alla mutata sensibilità sociale nei confronti del mondo animale. Nell’acquisita consapevolezza della natura di esseri viventi degli animali in grado di percepire sofferenze non soltanto di natura fisica, ma altresì di quelle che incidono sulla loro psiche essendo anch’essi passibili di tali menomazioni, il legislatore è intervenuto sull’impianto codicistico ampliando la sfera di tutela, precedentemente circoscritta all’art. 727 c.p. ai comportamenti connotati da maggiore gravità, in quanto dolosi, nei confronti degli animali e dunque in un’ottica di ben più ampio respiro di quella, di fatto, sostanzialmente limitata agli animali c.d. di affezione in cui di norma si estrinseca la detenzione, costituente il presupposto applicativo della contravvenzione di cui all’art. 727.
Le due norme, seppur accomunate dall’oggetto della tutela costituito dal sentimento di pietà nei confronti degli animali promuovendo l’educazione civile dei consociati, hanno ambiti applicativi diversi; la corte di cassazione (Cass. 10163 del 2017, Rondot e altri), in proposito, ha stigmatizzato che, la fattispecie delittuosa punisce chi cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche; tale fattispecie è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonché dall’ulteriore presupposto, che deve connotare il dolo, della crudeltà o della mancanza di necessità; la fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze, senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, né la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili.
È in tale contesto che si inserisce l’art. 19 ter disp. coord. c.p., introdotto dalla L. n. 189 del 2004, stabilendo che “le disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di animali”.
Nondimeno, la tesi difensiva si fonda su un’erronea lettura di tale disposizione che non va a perimetrare una sorta di zona franca volta a garantire agli esercenti le attività ivi menzionate, fra cui è compresa la pesca, di commettere impunemente i reati disciplinati dal titolo IX bis c.p.
Tale disposizione, infatti, altro non è se non l’esplicitazione del principio di specialità di cui all’art. 15 e della scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p.
Il fondamento dell’art. 19 ter disp. coord. c.p. è infatti quello di escludere l’applicabilità delle norme penali richiamate con riferimento ad attività obiettivamente lesive ma a condizione che siano svolte nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano perché considerate socialmente adeguate al consesso umano.
Pertanto, la scriminante trova il proprio limite applicativo nella funzionalità della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni posti a base della normativa speciale: dette attività devono essere svolte, per potere essere esentate da sanzione penale, nell’ambito della normativa speciale stessa ed ogni comportamento che esuli da tale ambito è suscettibile di essere penalmente valutato.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha escluso che l’esimente dell’esercizio di un diritto, invocata dal ricorrente, sia applicabile: infatti, poiché l’eccezione deve ritenersi operante solo nel caso in cui le attività in essa menzionate vengano svolte entro l’ambito di operatività delle disposizioni che le disciplinano, va rilevato che la normativa vigente in materia di pesca – nel cui ambito rientra la pesca sportiva, caratterizzata dall’uso della canna come attrezzo principale, ed esercitata a scopo ricreativo e amatoriale da singole persone, ovvero per attività agonistica – non disciplina le esche e conseguentemente neppure contempla, a differenza della disciplina sulla caccia (che consente l’uso, a scopo venatorio, di richiami vivi, ma comunque vieta che ad esseri viventi dotati di sensibilità psico-fisica siano arrecate ingiustificate sofferenze), l’utilizzo di animali viventi, onde l’esimente deve ritenersi inutilmente invocata: non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto, ma è necessario che ne consenta l’esercizio proprio con l’attività e le modalità che altrimenti costituirebbero reato.
Osserva inoltre la corte che, seppure nella prassi corrente i pescatori che praticano tale attività con la canna impiegano come esca vermi vivi, ma a prescindere dal rilievo che trattasi in tal caso di larve, il loro utilizzo a tal fine, non contrastante con le attitudini etologiche di tali esseri, non si presta in ogni caso a recar loro sofferenze. A parere dei giudici, invece, del tutto diverso è l’impiego di volatili, quali sono i piccioni, legati per una zampetta all’amo e costretti a seguire il volo della lenza fino a venire ripetutamente catapultati nel fiume quale richiami per la cattura del pesce siluro.
Tanto le condizioni di cattività a cui tali animali sono stati costretti con l’imbracatura alla lenza, quanto l’attentato alla loro stessa sopravvivenza con gli affogamenti ripetuti nell’acqua configurano una vera e propria sevizia, atta a provocare agli uccelli, quand’anche sopravvissuti, gravi sofferenze, indipendentemente dalle lesioni eventualmente arrecategli.
Risibile è poi l’argomento secondo cui i piccioni sarebbero prede naturali del pesce siluro; tale argomento, secondo i giudici, elude la ratio della norma in contestazione, come se fosse la natura di preda a determinare la legittimità del suo utilizzo, e il suo “sacrificio”, per finalità assolutamente non necessarie rispetto allo scopo dell’attività amatoriale praticata che preveda la cattura del predatore
Anche nel settore venatorio, la giurisprudenza ha precisato che costituisce ipotesi di sevizia configurante maltrattamento l’utilizzazione come richiamo per la caccia di una cesena viva, imbracata con una cordicella e costretta mediante strattoni a levarsi in volo per poi ricadere pesantemente al suolo o su un albero e che l’uso a scopo venatorio di richiami vivi con tali modalità che, se anche non vietate espressamente dalla legge 157 del 1992, debbono ritenersi illecite, non costituisce alcuno dei casi previsti dalla legge speciale in materia cui si riferisce l’art. 19 ter disp. coord. c.p.
La corte di cassazione dunque concorda con i giudici di merito che hanno condannato gli imputati avendo accertato che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano utilizzati, hanno determinato in essi rilevanti sofferenze, senza che ricorresse il requisito della necessità. La pesca, si afferma, è comunque praticabile con le esche di uso comune, senza che debba farsi ricorso ai piccioni, che di certo, non costituiscono le uniche prede di un animale ricompreso nella categoria dei pesci, e che invece sono stati in tal modo sottoposti a condizioni insopportabili per le loro attitudini etologiche, ovverosia incompatibili con il comportamento proprio della specie di appartenenza, così come ricostruito dalle scienze naturali, e perciò non giustificate dall’esigenza della pesca.
Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 14/12/2018) 29-04-2019, n. 17691 – Pres. Aceto – Rel. Galterio
1. Con sentenza in data 6.10.2017 la Corte di Appello di Firenze ha integralmente confermato la condanna, pronunciata all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale della stessa città, di Z.A., P.S. e G.L. alla pena di Euro 4.000,00 di multa ciascuno in quanto responsabili, in concorso fra loro, del reato di cui all’art. 544 ter c.p. per aver utilizzato piccioni vivi gettandoli nel fiume come esche per la pesca dopo averli appesi per una zampa all’amo, provocando la morte di quattro uccelli.
2. Avverso il suddetto provvedimento gli imputati hanno proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione congiunto, articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p..
2.1. Con il primo motivo deducono, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 544 ter c.p., che seppure la Corte di Appello avesse escluso in ragione delle modalità utilizzate la crudeltà della condotta, erroneamente aveva tuttavia ritenuto sussistente il requisito della sua inutilità, non avendo considerato che nell’ambito della pesca sportiva i piccioni al pari di altri volatili sono prede naturali del pesce siluro e che pertanto, così come non è censurabile la condotta posta in essere da tutti i pescatori di infilzare all’amo vermi vivi, neppure poteva essere ritenuto penalmente rilevante il praticato utilizzo dei volatili.
2.2. Con il secondo motivo deducono, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 544 ter c.p., che neppure sotto il profilo più squisitamente giuridico era ravvisabile l’inutilità atteso che costituendo la pesca, ove non di frodo, attività lecita la finalità di svago attraverso essa perseguita scrimina comunque la condotta tenuto altresì conto che l’art. 19 disp. coord. c.p. esclude l’applicabilità delle disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia pesca, allevamento, trasporto e macellazione degli animali.
Il ricorso in esame, che consente la trattazione congiunta dei due i motivi di cui si compone in quanto tra loro inscindibilmente connessi attenendo entrambi alla configurabilità del reato di maltrattamento di animali, non può ritenersi fondato.
Occorre premettere che l’art. 544 ter c.p., introdotto dalla L. 20 luglio 2004, n. 189, costituisce, al pari delle altre tre disposizioni codificate dalla novella che compongono il titolo 9 bis del libro secondo del codice penale, una norma profondamente innovativa rispetto al preesistente sistema, indotta dalla necessità di adeguare la disciplina penale alla mutata sensibilità sociale nei confronti del mondo animale. Nell’acquisita consapevolezza della natura di esseri viventi degli animali in grado di percepire sofferenze non soltanto di natura fisica, ma altresì di quelle che incidono sulla loro psiche essendo anch’essi passibili di tali menomazioni, il legislatore è intervenuto sull’impianto codicistico ampliando la sfera di tutela, precedentemente circoscritta all’art. 727 c.p. che già considerava penalmente rilevanti le condotte che “quantunque non accompagnate dalla volontà d’infierire, incidono senza giustificazione sulla sensibilità dell’animale producendo dolore” da parte di chi abbandona gli animali o li tiene in condizioni incompatibili con la loro natura, ai comportamenti connotati da maggiore gravità, in quanto dolosi, nei confronti degli animali a prescindere dal rapporto di detenzione da parte dell’agente e dunque in un’ottica di ben più ampio respiro di quella, di fatto, sostanzialmente limitata agli animali cd. di affezione in cui di norma si estrinseca la detenzione, costituente il presupposto applicativo della contravvenzione di cui all’art. 727.
D’altra parte che le due norme, seppur accomunate dall’oggetto della tutela costituito dal sentimento di pietà nei confronti degli animali promuovendo l’educazione civile dei consociati, abbiano ambiti applicativi diversi è stato già affermato da questa Corte che ha avuto modo di stigmatizzare che, mentre “la fattispecie delittuosa punisce chi “cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche”, è caratterizzata dal solo elemento soggettivo del dolo e non anche da quello della colpa, nonchè dall’ulteriore presupposto della crudeltà o della mancanza di necessità, la fattispecie contravvenzionale, invece, punisce, anche a titolo di colpa, la meno grave condotta di chi “detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze”, senza richiedere la crudeltà o la mancanza di necessità, nè la causazione di lesioni, o la sottoposizione a sevizie, comportamenti, fatiche, lavori insopportabili” (Sez. 3, n. 10163 del 03/10/2017 – dep. 06/03/2018, Rondot e altri, Rv. 2726210).
E’ in tale contesto che si inserisce l’art. 19 ter disp. coord. c.p., anch’esso introdotto dalla L. n. 189 del 2004 il quale prevede che “le disposizioni del titolo IX bis del libro secondo del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonchè dalle altre leggi speciali in materia di animali”. La tesi posta a monte delle doglianze difensive si fonda su un’erronea lettura di tale disposizione che gli imputati considerano una sorta di zona franca volta a garantire agli esercenti le attività ivi menzionate, fra cui è compresa la pesca, di commettere impunemente i reati disciplinati dal citato titolo IX – bis, mentre, al contrario, tale disposizione altro non è se non l’esplicitazione del principio di specialità di cui all’art. 15 e della scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p.. Come osservato in dottrina, infatti, la ratio ispiratrice della norma è quella di escludere l’applicabilità delle norme penali poste a tutela degli animali con riferimento ad attività obbiettivamente lesive della loro vita o salute a condizione che siano svolte nel rispetto delle normative speciali che le disciplinano perchè considerate socialmente adeguate al consesso umano. Uniformandosi a tale interpretazione la giurisprudenza ha pertanto univocamemente affermato che la scriminante trova il proprio limite applicativo nella funzionalità della condotta posta in essere rispetto agli scopi e alle ragioni posti a base della normativa speciale: dette attività, segnatamente contemplate dalla suddetta norma di coordinamento, devono essere svolte, per potere essere esentate da sanzione penale, nell’ambito della normativa speciale stessa ed ogni comportamento che esuli da tale ambito è suscettibile di essere penalmente valutato (cfr., con riferimento all’attività circense, Sez. 3, n. 11606 del 06/03/2012, Rv. 252251; nonchè Sez. 3, n. 40751 del 05/03/2015 – dep. 12/10/2015, PG in proc. Bertoldi, Rv. 265164, secondo cui in forza della previsione dell’art. 19-ter disp. att. c.p. il reato di cui all’art. 544-ter c.p. e le altre disposizioni del titolo 9-bis, libro secondo, del c.p. non si applicano ai casi previsti in materia di caccia ed alle ulteriori attività ivi menzionate, se svolte nel rispetto della normativa di settore).
Sulla scorta di tali principi deve pertanto escludersi che l’esimente dell’esercizio di un diritto, invocata dal ricorrente, sia applicabile alla fattispecie in esame. Dal momento che l’eccezione deve ritenersi operante solo nel caso in cui le attività in essa menzionate vengano svolte entro l’ambito di operatività delle disposizioni che le disciplinano, va rilevato che la normativa vigente in materia di pesca – nel cui ambito rientra la pesca sportiva, caratterizzata dall’uso della canna come attrezzo principale, ed esercitata a scopo ricreativo e amatoriale da singole persone, ovvero per attività agonistica – non disciplina le esche e conseguentemente neppure contempla, a differenza della disciplina sulla caccia (che consente l’uso, a scopo venatorio, di richiami vivi, ma comunque vieta che ad esseri viventi dotati di sensibilità psico-fisica siano arrecate ingiustificate sofferenze), l’utilizzo di animali viventi, onde l’esimente deve ritenersi inutilmente invocata: non è sufficiente che l’ordinamento attribuisca all’agente un diritto, ma è necessario che ne consenta l’esercizio proprio con l’attività e le modalità che altrimenti costituirebbero reato.
Ora è ben vero che nella prassi corrente i pescatori che praticano tale attività con la canna impiegano come esca vermi vivi, ma a prescindere dal rilievo che trattasi in tal caso di larve (quali si configurano, fra le più usate, i bigattini o le camole), il loro utilizzo a tal fine, non contrastante con le attitudini etologiche di tali esseri, non si presta in ogni caso a recar loro sofferenze. Del tutto diverso è l’impiego di volatili, quali sono i piccioni, legati per una zampetta all’amo e costretti a seguire il volo della lenza fino a venire ripetutamente catapultati nel fiume quale richiami per la cattura del pesce siluro che, a detta della difesa, di tali uccelli si nutre: è evidente come non solo le condizioni di cattività a cui tali animali sono stati costretti con l’imbracatura alla lenza, ma altresì l’attentato alla loro stessa sopravivenza con gli affogamenti ripetuti nell’acqua (tanto che sono state rinvenute dagli agenti di PG tra il materiale in possesso degli imputati quattro carcasse, ancora bagnate, di piccioni morti) si configuri come una vera e propria sevizia, atta a provocare agli uccelli, quand’anche sopravvissuti, gravi sofferenze, indipendentemente dalle lesioni eventualmente arrecategli. Sostenere, così come fa la difesa, che i piccioni siano prede naturali del pesce siluro, costituisce argomento che surrettiziamente elude la ratio della noma in contestazione, come se fosse la natura di preda a determinare la legittimità del suo utilizzo, ed in ultima analisi del suo “sacrificio”, per finalità assolutamente non necessarie rispetto allo scopo dell’attività amatoriale praticata che preveda la cattura del predatore: così opinando dovrebbe ritenersi legittimo l’impiego della gazzella per la caccia al leone o, restando nell’ambito dell’attività venatoria avente ad oggetto gli animali predatori nel territorio nazionale, della gallina o del cucciolo di un capriolo per la caccia alla volpe.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di rilevare, con riferimento alla disciplina sulla caccia, che costituisce ipotesi di sevizia configurante maltrattamento l’utilizzazione come richiamo per la caccia di una cesena viva, imbracata con una cordicella e costretta mediante strattoni a levarsi in volo per poi ricadere pesantemente al suolo o su un albero e che l’uso a scopo venatorio di richiami vivi con tali modalità che, se anche non vietate espressamente dalla L. n. 157 del 1992, debbono ritenersi illecite, non costituisce alcuno dei casi previsti dalla legge speciale in materia cui si riferisce l’art. 19 ter disp. coord. c.p. (Sez. 3 n. 46784, del 05/12/2005 – dep. 21/12/2005, Boventi, Rv. 232658).
La Corte d’appello correttamente basa la sua decisione sulla considerazione che le condotte degli imputati, in relazione alle condizioni in cui gli animali erano utilizzati, hanno determinato in essi rilevanti sofferenze, senza che ricorresse il requisito della necessità. La pesca, anche del pesce siluro, è comunque praticabile con le esche di uso comune (che comprendono, secondo l’accezione di uso corrente animaletti o pezzetti di carne o di altri organi animali, sostanze diverse o anche oggetti luccicanti, che si mettono all’amo per attirare e prendere i pesci), senza che debba farsi ricorso ai piccioni, che di certo, non facendo parte del suo naturale habitat, non costituiscono le uniche prede di un animale ricompreso nella categoria dei pesci, sia pure di acqua dolce e che invece sono stati in tal modo sottoposti a condizioni insopportabili per le loro attitudini etologiche, ovverosia incompatibili con il comportamento proprio della specie di appartenenza, così come ricostruito dalle scienze naturali (Sez. 3, n. 5979 del 13/12/2012 – dep. 07/02/2013, Galeotti, Rv. 254637), e perciò non giustificate dall’esigenza della pesca.
Segue al rigetto del ricorso, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2019
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