Ha proposto ricorso d’urgenza al Tribunale per ordinare ai gestori di social network la rimozione di contenuti on line presenti nelle pagine perché denigratori.
Ecco un rimedio ulteriore rispetto alla richiesta di sequestro.
Tribunale di Milano, sez. I Civile, ordinanza 4- 17 giugno 2020 – Presidente Miccichè – Relatore Flamini
Fatto e diritto
Con ricorso ex art. 700 c.p.c., depositato il 10 giugno 2019, Ma. Pe. ha chiesto al Tribunale di Milano di ordinare a Facebook Inc., Facebook Ireland Limited, Instagram LLC, Twitter INC, YouTube LLC e Google INC e Google Ireland Holding la rimozione di contenuti on line, presenti nelle pagine riferibili alle società convenute, ritenuti denigratori. A sostegno del ricorso ha dedotto: che svolgeva attività di amministrazione in realtà imprenditoriali note a livello nazionale ed internazionale; che aveva intrattenuto una relazione con la sig. Ju. (asseritamente nota anche con lo pseudonimo “…..”), con la quale aveva avuto un figlio; che, in seguito alla loro separazione, il figlio era rimasto a vivere con la sig.ra Ju. a Londra e il sig. Pe., residente in Italia, aveva versato alla ex compagnia un contributo di mantenimento; che, dopo il trasferimento del figlio della coppia presso il padre, il sig. Pe. non aveva più versato il contributo di mantenimento e, da quel momento, la sig.ra Ju. aveva posto in essere una “campagna denigratoria violentissima”, caratterizzata da “un’aggressività sempre crescente” su diversi social network, tra cui il Servizio Facebook e il Servizio Instagram, pubblicando post ed immagini dal contenuto gravemente diffamatorio dell’onore e della reputazione, personale e professionale del ricorrente (effettuata coinvolgendo anche il nome della sig. Se., proprietaria delle società nelle quali il ricorrente svolgeva il ruolo di amministratore delegato). Ha dunque concluso chiedendo: “previ tutti i provvedimenti di rito e di merito necessari, con provvedimento reso inaudita altera parte, atteso il tempo che sarà inevitabilmente necessario per la notificazione all’estero e l’esigenza di interrompere il prima possibile i contenuti denigratori presenti online che risultano oggettivamente ingiustificabili (e confidando che l’adempimento dell’ordine impartito renda altresì inutile la prosecuzione del giudizio anche nel merito) o in subordine previa fissazione di udienza e concessione del termine per la notificazione ai resistenti all’estero; i) ordinare ai resistenti, ciascuno per quanto di ragione, la immediata rimozione dei post, video, fotografie e di tutti i contenuti sopraindicati al punto 6 del presente ricorso, punti I), II), III), IV) (lettere da a a l) precisando, altresì, che il contenuto del presente ricorso e del conseguente decreto è coperto da riservatezza e non può essere divulgato a terzi soggetti se non nei limiti strettamente necessari da ragioni tecniche legate alla rimozione dei contenuti; ii) ordinare ai resistenti la rimozione di tutti i contenuti dai canali sopraindicati che rimandino direttamente e indirettamente al nostro assistito recando i nomi allo stesso riconducibili (“Pe.”, “Ma.”) e, occorrendo e tenuto conto che i post e video diffamatori sono assolutamente predominanti, la chiusura degli account e dei canali sopraindicati il tutto precisando, altresì, che il contenuto del presente ricorso e del conseguente decreto è coperto da riservatezza e non può essere divulgato a terzi soggetti se non nei limiti strettamente necessari da ragioni tecniche legate alla rimozione dei contenuti; iii) disporre sin d’ora l’obbligo a carico di ciascuno dei resistenti di versare una somma di denaro pari a Euro 200,00 al giorno (o la diversa anche maggiore somma ritenuta di giustizia) in via accessoria anche ex art. 614-bis c.p.c. in caso di mancata rimozione dei contenuti indicati entro 3 giorni dalla ricezione della notificazione del provvedimento (o nel diverso termine ritenuto da questo Ill.mo Tribunale)”.
Con comparsa di costituzione del 20.9.2019 Facebook Inc.,Facebook Ireland Limited e Instagram LLC si sono costituite chiedendo il rigetto delle domande di parte ricorrente.
Con memoria del 23.9.2019, Ma. Pe. ha rinunciato agli atti del giudizio nei confronti di Twitter, YouTube e Google (in considerazione del fatto che i contenuti presenti su Twitter erano stati prontamente rimossi e il canale YouTube era stato immediatamente chiuso).
Nel corso del giudizio è stato dato atto del fatto che le società resistenti avevano oscurato solo alcuni dei contenuti oggetto di ricorso e solo con riferimento all’Italia.
Con memoria del 12.11.2019 la difesa di Ma. Pe. ha indicato ulteriori contenuti diffamatori pubblicati suoi profili social segnalati nel ricorso introduttivo.
Depositate le memorie autorizzate, ascoltata la discussione delle parti, il Giudice, con ordinanza depositata in data 20 marzo 2020, in accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c. ha ordinato alle società resistenti Facebook Inc., Facebook Ireland LTD e Instagram LLC di rimuovere, a livello mondiale, i contenuti segnalati fissando il termine di trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza per il relativo adempimento e ha condannato le medesime società resistenti, in via tra loro solidale, alla rifusione, in favore del ricorrente, delle spese di lite.
Con reclamo depositato il 6.4.2020 Facebook Inc., Facebook Ireland LTD e Instagram LLC hanno chiesto la revoca dell’ordinanza e la condanna del reclamato al pagamento delle spese di lite del ricorso cautelare e della fase di reclamo. Le società reclamate hanno dedotto: che le società Facebook INC e Instagram erano prive di legittimazione passiva, atteso che responsabile dei contenuti presenti sul Servizio Facebook per gli utenti italiani era solo Facebook Ireland; che erroneamente il giudice della fase cautelare aveva ordinato la rimozione globale di tutti i contenuti, atteso che tale domanda non era stata formulata nel ricorso introduttivo (ma solo nella successiva memoria autorizzata) e che i Tribunali italiani non avevano il potere di ordinare la rimozione, a livello mondiale, dei contenuti; che non poteva ritenersi sussistente il requisito del periculum in mora, atteso che l’accesso ai contenuti manifestamente illeciti segnalati dal sig. Pe. era stato prontamente rimosso per gli utenti italiani del Servizio Facebook e del Servizio Instagram e che i restanti contenuti non potevano ritenersi illeciti; che Facebook Ireland aveva adempiuto agli obblighi sulla stessa gravanti (in forza degli artt. 16 e 17 del c.d. Decreto E-Commerce) provvedendo a rimuovere i contenuti “manifestamente illeciti”; che, tra i contenuti oggetto del ricorso, erano presenti messaggi dal tenore inoffensivo, che non potevano considerarsi illeciti.
Ritualmente citato Ma. Pe. si è costituito chiedendo il rigetto del reclamo e la conferma dell’ordinanza impugnata. Il reclamato, in particolare, ha dedotto: che i gestori dei canali di comunicazione, come le società convenute, avevano la possibilità e l’obbligo di rimuovere i contenuti offensivi e denigratori, anche in via d’urgenza (come previsto dagli artt. 14, 15, 16 e 17del D.Lgs. 70/2003); che l’ordinanza reclamata aveva correttamente richiamato i principi affermati dalla Corte di Giustizia, che aveva espressamente riconosciuto la possibilità di uno Stato membro di ordinare la rimozione dei contenuti a livello mondiale; che la rimozione a livello mondiale era necessaria atteso che le società in cui era coinvolto il sig. Pe. esportavano il 90% dei prodotti in tutto il mondo, avevano sede in 62 Paesi e si contraddicevano per una politica imprenditoriale caratterizzata dalla riservatezza e dall’impegno nella filantropia e che i contenuti erano redatti in lingua inglese (dunque, conoscibili in tutto il mondo); che l’eccezione di difetto di legittimazione passiva doveva ritenersi infondata, atteso che oggetto del ricorso era un ordine di rimozione a livello mondiale; che la controversia in esame non atteneva al trattamento dei dati personali, ma ad una controversia civilistica in materia di diffamazione e che, pertanto, non potevano essere invocati i principi sul bilanciamento tra diritti, affermati da parte della giurisprudenza richiamata dalle società reclamanti; che la campagna diffamatoria era proseguita anche dopo la pronuncia del provvedimento impugnato, come risultava dagli ulteriori contenuti postati dalla sig. Ju..
Con decreto del 10.4.2020 il Tribunale ha disposto, in forza dell’art. 83, comma 3, D.L. 18/2020, la trattazione scritta ed ha assegnato termini alle parti per il deposito di note scritte.
Depositate le note autorizzate, all’esito dell’udienza (con trattazione scritta) del 4.6.2020, il Collegio ha riservato la decisione.
In primo luogo deve essere precisato l’oggetto del presente reclamo. Nella comparsa di costituzione, infatti, il sig. Pe. ha indicato nuovi contenuti ritenuti diffamatori, pubblicati sulle pagine delle società convenute in seguito alla pubblicazione dell’ordinanza reclamata. La difesa delle società reclamanti ha precisato di non aver ricevuto alcuna notizia dal ricorrente dei predetti convenuti e ne ha evidenziato l’irrilevanza.
A tal proposito, osserva il Tribunale che, sebbene secondo l’ormai consolidato nella giurisprudenza di merito e condiviso da tempo da questo Tribunale (cfr. ordinanza 16 aprile 2017 nel procedimento RG 13796/17), il reclamo cautelare è rimedio totalmente devolutivo con superamento del divieto dello ius novorum con riferimento alle circostanze ed ai motivi integranti la causa petendi dell’originaria domanda cautelare, nel caso in esame il sig. Pe. non ha spiegato, in fase cautelare, alcuna domanda in merito ai nuovi contenuti pubblicati dalla sig. Ju..
1. Ancora in via preliminare, visto il contenuto delle difese delle parti, appare necessario compiere alcune precisazioni in merito alla qualificazione giuridica dei fatti e ai criteri di individuazione della giurisdizione del giudice ordinario adito.
Con riferimento al primo aspetto, osserva il Collegio che il ricorso introduttivo aveva ad oggetto, esclusivamente, la tutela dell’onore e della reputazione del sig. Pe.. Anche nella memoria autorizzata del 12/11/2019 (cfr., p. 15), il ricorrente specifica che la giurisprudenza CGUE menzionata da controparte (Google vs CNIL – C-507/17, avente ad oggetto il tema della deindicizzazione, da parte del motore di ricerca, delle pagine web riportanti dati personali e il correlato “diritto all’oblio” ex art. 17 GDPR) è inconferente in quanto “relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (non, quindi, un’azione civilistica in materia di diffamazione)”, sottolineando che “nella presente controversia stiamo discutendo di insulti gratuiti sui social, sicché non si tratta di applicare la direttiva Europea sul trattamento dei dati personali (…)”. Ancora nella memoria del 12/11/2019, Ma. Pe. precisa che anche i post contenenti il solo proprio nome accostato a immagini apparentemente neutrali o a frasi prive di senso compiuto avrebbero contenuto diffamatorio (cfr., p. 11, nella quale cita la giurisprudenza di legittimità per cui “la diffamazione viene tipicamente perpetrata anche mediante accostamenti suggestionanti e frasi dal contenuto apparentemente neutrale che nel contesto implicano un giudizio negativo di disvalore” e gli esempi a p. 19 “le foto della signora senza abiti forse sono di per sé innocue, ma diventano offensive se a fianco si cita il nome del dott. Pe. e la parola mistress”). Ancora una volta, quindi (e anche per i post che non contengono offese dirette), il ricorrente lamenta una lesione del proprio onore e reputazione e non un illecito trattamento di dati personali. Del tutto assente risulta, viceversa, un’allegazione in fatto (e in diritto) relativa all’asserita violazione del diritto all’identità personale o all’illecito trattamento dei dati. Né a tal fine appare rilevante il richiamo al nome (o all’hashtag) quale dato personale – elemento che avrebbe potuto portare il giudice della cautela a qualificare il ricorso anche in termini di violazione del diritto al trattamento dei propri dati personali -, infatti, se fosse sufficiente l’indicazione del nome, quale causa petendi di una domanda per violazione del diritto all’identità personale, si finirebbe per dover concludere per un’inevitabile ed automatica coesistenza di pubblicazioni astrattamente diffamatorie e violazione dei dati personali per tutte quelle informazioni che contengano riferimenti a persone fisiche, specificamente individuate attraverso il loro nome. Conclusione implausibile che rafforza la necessità della specifica deduzione di autonomi profili.
2. Tanto premesso, trattandosi di responsabilità da fatto illecito, occorre premettere che la disciplina del forum commissi delicti, contenuta nell’art. 5 n. 3 del Regolamento Bruxelles I, è stata sostituita, a partire dal 10 gennaio 2015, dal corrispondente art. 7 n. 2 del Regolamento n. 1215/2012, che ne ha però mantenuto sostanzialmente invariata la formulazione letterale. Tale criterio di competenza giurisdizionale costituisce un foro non solo speciale e alternativo rispetto al foro generale del domicilio (o sede) del convenuto, ma anche facoltativo.
La Corte di Giustizia è più volte intervenuta, pronunciandosi in via pregiudiziale, sull’interpretazione dell’art. 5 n. 3 del Regolamento Bruxelles I, che ha sostituito la Convenzione di Bruxelles del 1968. La continuità, a livello interpretativo, tra l’articolo 5 n. 3 della Convenzione di Bruxelles e il corrispondente articolo contenuto nel Regolamento n. 44/2001 è stata sancita dal legislatore Europeo nel diciannovesimo considerando del Regolamento Bruxelles I, nonché dalla Corte di Giustizia (secondo la quale l’interpretazione fornita con riferimento alle disposizioni della Convenzione di Bruxelles si estende anche a quelle del Regolamento del 2001 – e, a fortiori, del Regolamento Bruxelles I-bis -, nel caso in cui le disposizioni siano qualificabili come equivalenti).
Con riferimento alla nozione di “materia di delitto o quasi delitto”, la Corte di giustizia ne ha affermato, nella sentenza Kalfelis, il carattere di nozione Europea autonoma, in cui è ricompresa “ (…) qualsiasi domanda che miri a coinvolgere la responsabilità di un convenuto e che non si ricolleghi alla materia contrattuale di cui all’art. 5, n. 1 “.
La Corte di Cassazione ha più volte affermato che “ai fini di determinare l’ambito della giurisdizione italiana rispetto al convenuto non domiciliato né residente in Italia, occorre applicare i criteri stabiliti dalle sezioni 2″, 3″ e 4″ del titolo 2 della Convenzione, anche quando il convenuto stesso sia domiciliato in uno Stato non contraente della Convenzione” (così Cass. S.U. ord. 21.10.2009 n. 22239; cfr. anche Cass. S.U. ord. 27.2.2008 n. 5090; Cass. S.U. ord. 11.2.2003 n. 2060, Cass. S.U. 12-04-2012, n. 5765).
Con riferimento al “ luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto “ è ormai consolidata nella giurisprudenza Europea il principio della piena dicotomia tra azione ed evento, secondo cui in caso di illeciti c.d. complessi o a distanza, caratterizzati dalla dissociazione geografica tra il luogo del fatto e il luogo del danno, è competente, a scelta dell’attore, sia il giudice del luogo del fatto generatore del danno (teoria dell’azione) sia il giudice del luogo in cui si è verificato il danno (teoria dell’evento).
La Corte di Cassazione, sin dal 2003, ha ribadito come – esaminando la struttura dell’illecito disciplinato a livello comunitario ai soli fini di determinazione della competenza giurisdizionale – il criterio di collegamento debba essere individuato o dal fatto generatore dell’illecito, ovvero dal luogo ove si sia prodotta la lesione diretta ed immediata del bene protetto, ancorché gli effetti mediati dell’evento di danno possano diversamente propagarsi nel tempo e nello spazio (cfr. anche, per un’ampia ricostruzione della giurisprudenza comunitaria relativa all’interpretazione dell’art. 5 della Convenzione di Bruxelles, Cass. SS.UU. 14654/2011).
Ancora, in via generale, mette conto osservare come il criterio di giurisdizione del “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto” debba essere interpretato facendo riferimento al centro di interessi del soggetto leso, e cioè il luogo della sua residenza abituale o dell’esercizio dell’attività professionale da parte della persona lesa (principi espressi dalla Corte di Giustizia con la sentenza 25.10.2011, C-509-9 – eDate Advertising e a. in un caso di diffamazione on line).
Tanto premesso, nel caso in esame, ritiene questo giudice che l’evento illecito possa ritenersi dannoso nel momento in cui provochi la lesione concreta del bene protetto, in relazione al soggetto che per tale lesione chieda tutela. Nella specie, la detta lesione può ritenersi consumata nel luogo e nel momento in cui il soggetto leso abbia preso consapevolezza dei commenti denigratori postati sui profili Facebook e Instagram della sig. Ju.. Tale consapevolezza ha trovato concreta attuazione nel paese di origine del danneggiato.
Per tali motivi, non può revocarsi in dubbio la sussistenza della giurisdizione dell’autorità giurisdizionale italiana a pronunciarsi sul ricorso proposto dal sig. Pe..
3.L’eccezione relativa al difetto di legittimazione passiva delle società Facebook INC e Instagram LLC è infondata e deve essere rigettata.
La giurisprudenza tende a risolvere la legittimazione attiva e passiva “nella titolarità del potere o del dovere (rispettivamente per la legittimazione attiva o passiva) di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, indipendentemente dalla questione dell’effettiva titolarità dal lato attivo o passivo del rapporto controverso, questione che, invece, attiene al merito” (così Cass. 2 febbraio 1995, n. 1188). In altri termini, perché sussista la legittimazione attiva o passiva è necessario e sufficiente che un soggetto affermi la propria titolarità del lato attivo di un diritto (legittimazione attiva) e che ad un soggetto sia attribuita titolarità del lato passivo di un diritto (legittimazione passiva), senza che sull’esistenza di tali condizioni dell’azione venga ad influire la concreta titolarità attiva o passiva del rapporto dedotto in giudizio, la quale viene a tradursi in una mera questione di merito che conduce conseguentemente non ad una pronuncia in rito sulla legittimazione, ma ad una pronuncia in merito sulla possibilità di accogliere la domanda.
La legittimazione ad agire, quale condizione dell’azione, va valutata in chiave di prospettazione ed essa è carente solo nei rari casi in cui l’attore faccia valere un diritto altrui, prospettandolo come proprio, ovvero pretenda di ottenere una pronunzia contro il convenuto pur deducendone la relativa estraneità al rapporto sostanziale controverso (ex plurimis, Cass 2951/2016; Cass 14177/2011; Cass 6132/2008; Cass 11284/2010, secondo cui “la legittimazione ad agire e contraddire deve essere accertata in relazione non alla sua sussistenza effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio”).
Parte ricorrente ha allegato che tutte e tre le società resistenti hanno concorso negli illeciti contestati.
Tale specifica deduzione porta al rigetto dell’eccezione formulata.
Ritenuta sussistente la legittimazione passiva in capo a tutte e tre le società convenute, le domande svolte dal sig. Pe. nei confronti di Facebook INC e Instagram LLC devono, comunque, essere rigettate nel merito. La Facebook Ireland Limited, società registrata in Irlanda con sede a Dublino, è una controllata della società statunitense Facebook Inc. La Facebook Ireland gestisce, per gli utenti situati al di fuori degli Stati Uniti e del Canada, una piattaforma di rete sociale in linea, accessibile all’indirizzo www.facebook.com. Tale piattaforma consente agli utenti di creare pagine di profili e di pubblicare commenti.
Come risulta dai documenti depositati dalla difesa di Facebook, Facebook INC e Instagram LLC, invece, non ospitano né gestiscono i servizi Fecebook e Instagram per gli utenti Europei.
Nella parte in cui il Tribunale ha condannato anche Facebook INC e Instagram LLC, pertanto, l’ordinanza impugnata deve essere riformata.
4. Devono compiersi alcune considerazioni preliminari in merito alla disciplina applicabile all’hosting provider.
E’ pacifico che Facebook Ireland fornisca servizi di hosting ai sensi dell’articolo 14 della direttiva 2000/31 (in tal senso, espressamente, punto 22 della pronuncia della Corte di Giustizia 3.10.2019, causa C-18/18, Eva Glawischnig-Piesczek contro Facebook Ireland Limited).
Occorre premettere che dalla definizione di “servizi della società dell’informazione” (art. 2, lett. a, della direttiva 2000/31/CE) risulta che la nozione ricomprende i servizi prestati normalmente dietro retribuzione, a distanza, mediante attrezzature elettroniche di trattamento e di memorizzazione di dati ed a richiesta individuale di un destinatario di servizi (Corte di giustizia UE 12 luglio 2011, C-324/09, L’Orèal c. eBay International, punto 109), onde il provider è il soggetto che organizza l’offerta ai propri utenti dell’accesso alla rete internet e dei servizi connessi all’utilizzo di essa.
Le tre fattispecie delineate dal D.Lgs. n. 70 del 2003, artt. 14, 15 e 16, sulla scia degli artt. 12, 13, e 14 della direttiva, sono ivi rispettivamente definite come “semplice trasporto – mere conduit”, “memorizzazione temporanea – caching” e duratura “memorizzazione di informazioni – hosting”, con espressioni inglesi incorporate nella stessa definizione della normativa interna.
L’articolo 14 della direttiva 2000/31, intitolato “Hosting”, così dispone: “1. Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso. (…) Ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, di tale direttiva: “Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite”. L’articolo 18, paragrafo 1, della direttiva citata prevede quanto segue: “Gli Stati membri provvedono affinché i ricorsi giurisdizionali previsti dal diritto nazionale per quanto concerne le attività dei servizi della società dell’informazione consentano di prendere rapidamente provvedimenti, anche provvisori, atti a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori danni agli interessi in causa”.
Per individuare con precisione la disciplina applicabile, occorre verificare se la società reclamante, Facebook Ireland, possa essere definita hosting provider attivo o passivo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha accolto la nozione di “hosting provider attivo”, riferita a tutti quei casi che esulano da un'”attività dei prestatori di servizi della società dell’informazione (che) sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono nè controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi”, mentre “(p)er contro, tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell’informazione svolga un ruolo attivo”, richiamando a tal fine il considerando 42 della direttiva (Corte di giustizia UE 7 agosto 2018, Cooperatieve Vereniging SNB-REACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, punti 47 e 48).
La Comunicazione della Commissione Europea COM (2017) 555 del 28 settembre 2017, intitolata “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”, ha preso parimenti atto dell’orientamento della Corte di giustizia, secondo cui la deroga alla responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva è disponibile solo per i prestatori di servizi di hosting “che non rivestono un ruolo attivo” (p. 11).
Dall’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2000/31, letto alla luce del considerando 45 della stessa, risulta inoltre che l’esenzione di responsabilità non pregiudica la possibilità per i giudici o le autorità amministrative nazionali di esigere dal prestatore di servizi di hosting interessato di porre fine ad una violazione o di impedirla, anche rimuovendo le informazioni illecite o disabilitando l’accesso alle medesime. Ne consegue, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza 3.10.2019, Eva Glawischnig-Piesczek contro Facebook Ireland Limited, causa C-18/18, che “un prestatore di servizi di hosting può essere destinatario di ingiunzioni emesse in base al diritto nazionale di uno Stato membro, anche se soddisfa una delle condizioni alternative di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, vale a dire anche nell’ipotesi in cui non sia considerato responsabile” (paragrafo 25). Nella citata pronuncia, i giudici di Lussemburgo precisano che ai servizi di hosting non può essere imposto un obbligo generale di sorveglianza delle informazioni che trasmettono o memorizzano, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite Recentemente la Suprema Corte, con la pronuncia del 19 marzo 2019, n. 7708 (coeva alla n. 7709), ha chiarito che l’hosting provider attivo è il prestatore dei servizi della società dell’informazione la cui attività esula da un servizio meramente tecnico, automatico e passivo e che pone invece in essere una condotta attiva concorrendo, nella violazione dei diritti d’autore e connessi altrui effettuata tramite i suoi servizi. Nella pronuncia in esame la Corte ha affermato: “La distinzione tra hosting provider attivo e passivo può, a ben vedere, agevolmente inquadrarsi nella tradizionale teoria della condotta illecita, la quale può consistere in un’azione o in un’omissione, in tale ultimo caso con illecito omissivo in senso proprio, in mancanza dell’evento, oppure, qualora ne derivi un evento, in senso improprio; a sua volta, ove l’evento sia costituito dal fatto illecito altrui, si configura l’illecito commissivo mediante omissione in concorso con l’autore principale. La figura dell’hosting provider attivo va ricondotta alla fattispecie della condotta illecita attiva di concorso. Al riguardo, vale la pena di ricordare l’osservazione della dottrina, secondo cui il diritto privato Europeo è pragmatico e non si cura delle architetture concettuali, avendo il legislatore comunitario il difficile compito di ottenere effettività con il “minimo investimento assiologico” ed un “minimo tasso di riconcettualizzazione”; ed il rilievo, secondo cui le norme di derivazione Europea provengono da sistemi giuridici segnati da una “tendenziale sottoteorizzazione”….”Dunque, si può parlare di hosting provider attivo, sottratto al regime privilegiato, quando sia ravvisabile una condotta di azione, nel senso ora richiamato. Gli elementi idonei a delineare la figura o “indici di interferenza”, da accertare in concreto ad opera del giudice del merito, sono – a titolo esemplificativo e non necessariamente tutte compresenti – le attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione: condotte che abbiano, in sostanza, l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati”.
Nel caso in esame, dagli atti di causa e dalle allegazioni delle parti emerge che: Facebook Ireland eroga un servizio online gratuito, mediante il quale gli utenti possono entrare in contatto e condividere informazioni; Instagram eroga un servizio on line gratuito attraverso il quale gli utenti possono condividere e scambiare immagini e fa parte dei prodotti Facebook (cfr. doc. 3, 4 e 5 allegati alla comparsa di costituzione del giudizio cautelare). Facebook e Instagram erogano, pertanto, servizi di fruizione di contenuti e di immagini, con mera prestazione di servizi di “ospitalità” di dati o hosting, senza proporre altri servizi di elaborazione dei dati. Non emerge in alcun modo, pertanto, l’avvenuta manipolazione dei dati immessi: onde ciò non è in grado di determinare il mutamento della natura del servizio descritto, che resta meramente “passivo”.
Facebook ed Instagram, pertanto, possono essere qualificati come hosting provider passivi.
La fattispecie in esame, dunque, resta inquadrabile nella disciplina del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16.
L’hosting provider risponde, ai sensi dell’art. 16, D.Lgs. n. 70/2003, ove non abbia immediatamente rimosso i contenuti illeciti comunicati al pubblico tramite i propri servizi o abbia continuato a pubblicarli, se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: (a) sia a conoscenza legale dell’illecito, anche a causa della comunicazione del titolare dei diritti; (b) possa ragionevolmente constatare l’illiceità dell’altrui condotta, conformemente al canone della diligenza professionale; (c) si possa attivare utilmente a tutela di tali contenuti protetti, in quanto sufficientemente a conoscenza dei materiali illeciti da rimuovere.
Con riferimento all’illiceità manifesta dei contenuti la Suprema Corte, nella sentenza 7708/2019, ha precisato che tale illiceità “discende dalla violazione dell’altrui sfera giuridica, mediante un illecito civile o penale, comportante la lesione di diritti personalissimi, quali ad esempio il diritto all’onore, alla reputazione, all’identità personale, all’immagine o alla riservatezza; o ancora, come nella specie, del diritto di autore”.
Nella pronuncia in esame, con riferimento al requisito della “conoscenza effettiva” la Cassazione, nella pronuncia appena citata, ha chiarito che: la conoscenza dell’altrui illecito, quale elemento costitutivo della responsabilità del prestatore stesso, coincide con l’esistenza di una comunicazione in tal senso operata dal terzo, il cui diritto si assuma leso; l’onere della prova a carico del mittente riguarda l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario; il sorgere dell’obbligo in capo al prestatore del servizio non richiede una “diffida” in senso tecnico – quale richiesta di adempimento dell’obbligo di rimozione dei documenti illeciti – essendo a ciò sufficiente la mera “comunicazione” o notizia della lesione del diritto.
Tanto premesso, nel caso in esame, è pacifico che la “comunicazione” alle società odierne reclamanti sia avvenuta solo con la notifica del ricorso ex art. 700 c.p.c. – e, per i contenuti di cui agli allegati B) e C) sono con la memoria autorizzata del 12.11.2019 – e, pertanto, solo in tale momento può ritenersi sorto l’obbligo dell’hosting provider.
5. Alla luce delle considerazioni appena svolte, occorre verificare se i contenuti per cui è causa possono ritenersi manifestamente illeciti.
Occorre, pertanto, verificare se gli stessi, stando ad una valutazione necessariamente sommaria (propria della fase cautelare), violino il diritto all’onore e alla reputazione invocato dalla difesa del sig. Pe..
In via generale, osserva il Collegio che a ciascun individuo è riconosciuto un diritto all’onore, al decoro e alla reputazione, quali valori sociali della persona, strettamente connessi al concetto di inviolabile dignità dell’uomo, consacrato, nel nostro ordinamento, all’art. 2 della Costituzione e, in ambito internazionale e sovranazionale, dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, dall’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dall’art. 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificato in Italia con legge n. 881/1977.
La legge nazionale tutela tali interessi mediante la comminatoria di sanzioni penali (cfr. art. 595 c.p. in tema di diffamazione e art. 594 c.p. in tema di ingiuria, ora trasformata in un illecito civile sottoposto a sanzioni civili in virtù del D.Lgs. n. 7/2016).
E’ pertanto illegittima ogni espressione di mancato rispetto dell’integrità morale della persona, comunque manifestata.
Tali interessi vengono tuttavia inevitabilmente a porsi in conflitto con il diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, anch’esso riconosciuto dalla Costituzione (all’art. 21) e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (all’art. 10, mutuato dall’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e ampliato dall’art. 19 del Patto internazionale di relativo ai diritti civili e politici) che lo consacrano come uno tra i più importanti diritti dell’individuo. La libertà di diffusione del pensiero non riguarda solo le informazioni e opinioni neutre o inoffensive, ma anche quelle che possano colpire negativamente, “essendo ciò richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica” (Corte Europea dei Diritti dell’uomo 8/7/1986 Lingens/Austria).
L’esercizio del diritto fondamentale alla manifestazione del proprio pensiero funge da scriminante del fatto lesivo dell’onore altrui (rendendo lecita quest’ultima all’interno di tutto l’ordinamento) a condizione che vengano rispettati tre requisiti fondamentali, elaborati e riempiti di contenuto dalla giurisprudenza italiana e sovranazionale. Tali requisiti sono: a) la verità, ossia la corrispondenza tra i fatti accaduti e quelli narrati, con la precisazione che può ritenersi sufficiente anche la sola verità putativa purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca; b) la pertinenza, ossia la sussistenza di un interesse ai fatti narrati da parte dell’opinione pubblica (Cass. civ. 15 dicembre 2004, n. 23366; Cass. civ. Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259); c) la continenza, ossia la correttezza con cui i fatti vengono esposti, con rispetto dei requisiti minimi di forma (Cass. 18 ottobre 1984, n. 5259).
Tanto premesso, nel caso in esame occorre esaminare specificamente tutti i contenuti oggetto di causa, per verificare se gli stessi ledano l’onore e la reputazione del sig. Pe., si riferiscano a fatti realmente accaduti e vengano esposti in modo corretto.
Per semplicità e chiarezza, l’esame dei contenuti verrà condotto secondo la suddivisione proposta dalla difesa del ricorrente (e contenuta nell’ordinanza reclamata).
Con riferimento ai contenuti di cui allegato A) della memoria autorizzata del 12.11.2019 non vi è alcun dubbio che gli stessi violino il diritto all’onore del sig. Pe.. Solo a titolo di esempio, si possono citare post nei quali il ricorrente viene definito “mafioso” o, ancora, video nei quali la sig. Ju. urina sulla foto del sig. Pe..
A tali considerazioni si aggiunge che, a fronte dell’accertata manifesta illiceità dei contenuti oggetto di esame, non può dirsi sussistente alcun interesse pubblico alla conoscenza della vicenda in esame.
Rispetto a tali contenuti, peraltro, le stesse società reclamanti hanno provveduto tempestivamente alla loro rimozione. La materia del contendere attiene, pertanto, solo all’estensione territoriale dell’ordine di cancellazione (questione sulla quale si tornerà in seguito).
In merito ai contenuti di cui all’allegato B) – 10 contenuti Facebook e 12 contenuti Instagram – oggetto di richiesta formulata nel corso del giudizio cautelare (e dopo la notifica del ricorso introduttivo, si osserva quanto segue), si osserva quanto segue. Con riferimento all’eccepita “modifica della domanda cautelare”, osserva il Collegio come, nel procedimento ex art. 700 c.p.c. non possano ravvisarsi preclusioni e come, nel caso in esame, il fatto costitutivo della pretesa sia rimasto lo stesso.
Nei contenuti in esame, nei quali An. Ju. appare in atteggiamenti ed abiti provocatori od in contesti trasgressivi, vi sono ripetuti riferimenti al nome del sig. Pe., che sono idonei ad ingenerare l’idea di un coinvolgimento dell’interessato in situazioni, iniziative o condotte connotate da ambiguità, provocazione od irregolarità. Gli stessi, pertanto, devono ritenersi lesivi dell’onore e della reputazione del ricorrente.
Alla luce dei principi sopra richiamati possono essere ritenuti manifestamente illeciti, in quanto lesivi dell’onore del sig. Pe., i seguenti contenuti:
(omissis…)
– i due post prodotti in formato cartaceo sub alleg. 11 (pagg. da 4 a 8) manifestamente illeciti perché contengono informazioni personali di Ma. Pe., introdotte dalla scritta “VERGOGNA MA. PE.”; perché accusano Ma. Pe. di aver negato la paternità del figlio e perché non continenti (vi sono foto della sig. Ju. a letto con foto sul comodino e la scritta “always keep an eye of the picture of your enemy next to the bed”, oltre ad hasthag (omissis…));
– INSTAGRAM del 17 aprile 2019 (omissis…) (ritenuto manifestamente illecito per le considerazioni sopra svolte);
– Instagram 2 giugno 2019 (omissis…) (ritenuto illecito, per le considerazioni sopra svolte);
– Instagram, 15 marzo 2019 (omissis…).
A diverse conclusioni deve invece giungersi con riferimento ai seguenti contenuti che, a differenza di quelli sopra esaminati, non possono ritenersi lesivi dell’onore del sig. Pe.:
(omissis…)
Con riferimento ai contenuti sub C) – allegato 17 – si osserva quanto segue.
Alla luce dei principi sopra richiamati possono essere ritenuti manifestamente illeciti, in quanto lesivi dell’onore del sig. Pe., i seguenti contenuti:
(omissis…)
I seguenti contenuti, invece, alla luce delle argomentazioni sopra svolte, non hanno contenuto manifestamente illecito, perché si limitano a meri fotogrammi di un video, accompagnati da didascalie non offensive:
(omissis…)
Del pari non può essere considerato “manifestamente illecito” il profilo Instagram atteso che dello stesso è stata depositata (doc. 4, pag. 1) solo la foto della prima schermata (sulla base della quale non è possibile compiere il necessario giudizio riferito alla predetta illiceità).
La domanda volta ad ottenere la rimozione dei contenuti “che rimandino direttamente e indirettamente al nostro assistito recando i nomi allo stesso riconducibili (“Pe.”, “Ma.”)” sulla quale il giudice di prime cure non si è espressamente pronunciato, deve essere rigettata in quanto indeterminata. L’accoglimento della stessa, peraltro, porterebbe ad un’inammissibile censura preventiva rispetto a contenuti che, in modo lecito, ben potrebbero contenere osservazioni o critiche legittime rivolte nei confronti del ricorrente.
6. In merito ai rimedi esperibili, osserva il Collegio come la direttiva 2000/31, in particolare il suo articolo 15, paragrafo 1, consenta che un giudice di uno Stato membro possa ordinare ad un servizio di hosting di rimuovere le informazioni oggetto dell’ingiunzione o di bloccare l’accesso alle medesime.
Con riferimento alla portata territoriale del predetto ordine, la Corte di Giustizia, nella richiamata sentenza Eva Glawischning-Piesczek c. Facebook Ireland LT, ha affermato che tale ordine può essere effettuato a livello mondiale, nell’ambito del diritto internazionale pertinente.
Alla luce del contenuto delle difese delle parti (e dei richiami giurisprudenziali contenuti), appare opportuno ribadire che, nel caso in esame, la fattispecie attiene alla lesione del diritto all’onore ed alla reputazione e non, invece, alla lesione del diritto al trattamento dei dati personali.
Come efficacemente chiarito nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Ma. Sz. presentate il 4.6.2019, nella causa C-18/18 (conclusosi con la pronuncia appena citata), infatti, il legislatore dell’Unione non ha armonizzato né le norme sostanziali in materia di pregiudizio alla vita privata e ai diritti della personalità, inclusa la diffamazione, né le norme di conflitto in materia (cfr. articolo 1, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 864/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (“Roma II”, GU 2007, L 199, pag. 40). Pertanto, al fine di conoscere delle azioni di diffamazione, ciascun giudice dell’Unione ricorre alla legge designata come applicabile in forza delle norme nazionali di conflitto.
La pronuncia della Corte di Giustizia richiamata dalle parti (nella causa C-507/17, Google LLC /Commission nationale de l’informatique et des libertès, CNIL), invece, riguardava la direttiva 95/46/CE, la quale armonizza, a livello dell’Unione – a differenza di quanto appena visto in materia di diffamazione – alcune norme sostanziali relative alla protezione dei dati.
Nel caso in esame, invece, l’imposizione in uno Stato membro di un obbligo consistente nel rimuovere talune informazioni a livello mondiale (in conseguenza di un accertamento in fase sommaria), per tutti gli utenti di una piattaforma elettronica, a causa dell’illiceità di tali informazioni accertata in forza di una legge applicabile, avrebbe come conseguenza che l’accertamento del loro carattere illecito esplichi effetti in altri Stati (che ben potrebbero, secondo le norme nazionali di conflitto, ritenere invece leciti i contenuti oggetto di causa).
Tali considerazioni portano a ritenere che il giudice di uno Stato membro possa, in teoria, statuire sulla rimozione delle informazioni, manifestamente illecite, diffuse a mezzo Internet a livello mondiale. Tuttavia, come condivisibilmente sottolineato dall’Avvocato generale nelle richiamate conclusioni, “a causa delle differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro, e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un siffatto giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione”.
Tale autolimitazione si realizza attraverso l’applicazione del principio di proporzionalità. Il diritto all’onore e alla reputazione non è un diritto assoluto, ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione sociale ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, conformemente al principio di proporzionalità (in materia di trattamento dei dati personali, ma con argomentazioni che ben possono essere applicate nel caso di specie v., del pari, sentenza del 9 novembre 2010, Volker und Markus Schecke e Eifert, C-92/09 e C-93/09, EU:C:2010:662, punto 48).
Non pare inutile ricordare che l’articolo 52, paragrafo 1, della Carta ammette che possano essere apportate limitazioni all’esercizio di diritti previsti dalla Carta stessa, purché tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui (sentenza del 9 novembre 2010, Volker und Markus Schecke e Eifert, C-92/09 e C-93/09, EU:C:2010:662, punto 50).
La nostra Corte Costituzionale, inoltre, ha affermato che nessun diritto fondamentale è protetto in termini assoluti dalla Costituzione, ma – al contrario – è soggetto a limiti per integrarsi con una pluralità di altri diritti e valori, giacché altrimenti si farebbe “tiranno” e porterebbe al totale annientamento di uno o più fattori in gioco (Corte Cost. 85/2013).
Tanto premesso, nel caso in esame, alla luce dei contenuti oggetto di causa – pubblicati dalla ex compagna del sig. Pe. ed aventi ad oggetto, come evidenziato poco sopra, commenti, accostamenti suggestivi con espressioni denigratorie ed immagini tese a screditare l’onore e la reputazione del ricorrente – ritiene il Tribunale che, nel necessario bilanciamento tra la libertà di espressione e l’onore e la reputazione il contenuto degli stessi porti a rilevarne, nei limiti sopra indicati, il carattere manifestamente illecito.
Una volta accertata la manifesta illiceità (nei limiti sopra indicati), nella scelta dei rimedi ritiene il Tribunale che, per assicurare al ricorrente una tutela effettiva, debba essere privilegiato il rimedio dal carattere fortemente incisivo, quale la rimozione definitiva dei contenuti. Con riferimento all’estensione territoriale di tale rimedio, in applicazione del principio di proporzionalità, in ragione della tipologia di contenuti pubblicati, delle caratteristiche del soggetto denigrato (il quale non svolge alcun ruolo pubblico) e dell’autore delle pubblicazioni (la ex compagna del sig. Pe.) e delle espressioni utilizzate (che in più parti fanno riferimento a vicende dal carattere privato, legate, ad esempio, alla volontà del sig. Pe. di non riconoscere il figlio), ritiene il Tribunale che l’ordine di rimozione sia idoneo a garantire una tutela effettiva senza necessità di estensione a tutto il mondo. Le attività lavorative svolte dal sig. Pe. (in particolare il ruolo di amministratore delegato in società dal rilievo internazionale, la lingua inglese in cui i post sono pubblicati ed il fatto che il figlio del ricorrente sia nato in Inghilterra) non giustificano, alla luce dei principi sopra richiamati, l’estensione territoriale a livello mondiale del predetto ordine di rimozione.
Ancora in merito all’ambito territoriale di riferimento, osserva il Collegio che la forte compressione della libertà di espressione – in Stati che, come evidenziato poco sopra, ben potrebbero prevedere discipline nazionali diverse da quella dello Stato che emette l’ordine – conseguente ad un ordine di rimozione a livello mondiale richiede, proprio per il delicato bilanciamento tra diritti fondamentali, in ossequio a principi costituzionali e sovranazionali, l’intervento dell’autorità giudiziaria e difficilmente sembra demandabile a società private, quali i motori di ricerca o i social network.
La rimozione, pertanto, deve essere effettuata da Facebook Ireland con riferimento agli Stati Europei (tra i quali rientra ancora la Gran Bretagna, atteso che, come è notorio, non risulta ancora decorso il periodo di transizione).
Anche in punto di spese di lite si impone una riforma del provvedimento impugnato. Facebook Ireland, infatti, non appena ricevuta notizia (con il ricorso introduttivo) della presenza di contenuti illeciti, li ha prontamente rimossi (sebbene solo con riferimento all’Italia). La novità della questione relativa all’estensione territoriale dell’ordine di rimozione, l’assenza di univoci orientamenti giurisprudenziali, le considerazioni appena svolte in ordine alla necessità che un provvedimento di tale portata (in materia di tutela dell’onore e della reputazione) venga adottato dall’autorità giurisdizionale e l’esistenza di pronunce della Corte, portano il Collegio a ritenere sussistenti le ragioni per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite sia della fase cautelare che della presente fase di reclamo.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:
1) In parziale riforma dell’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano e depositata il 20.3.2020, rigetta le domande cautelari spiegate nei confronti di Facebook Inc. e Instagram LLC ed ordina a Facebook Ireland LTD di rimuovere, in tutti gli stati dell’Unione Europea, i seguenti contenuti:
– tutti i contenuti di cui allegato A) della memoria autorizzata di Ma. Pe. del 12.11.2019;
– i seguenti contenuti di cui all’allegato B) della memoria autorizzata dai Ma. Pe. del 12.11.2019:
(omissis…)
– I seguenti contenuti di cui all’allegato C) della memoria autorizzata del 12.11.2019 di Ma. Pe.:
(omissis…)
– Compensa integralmente le spese di lite tra le parti.
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