Il direttore di un giornale è stato condannato per diffamazione per non aver esercitato il controllo necessario ad impedire che, a corredo di un articolo, venisse pubblicato il titolo che additava un tale come “menagramo”.
Secondo i giudici, l’espressione adoperata nel titolo non lasciava dubbi sulla sua concreta riferibilità anche all’individuo parte offesa, all’epoca presidente di un’associazione.
La giurisprudenza ha chiarito che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini della individuazione del soggetto passivo, non è sufficiente avere riguardo al titolo dell’articolo diffamatorio ma è necessario estendere la disamina a tutto il complesso degli elementi topografici che concorrono a comporlo. Nel caso di specie, tuttavia, l’espressione utilizzata, proprio attraverso il riferimento ai “menagrami di professione”, “va a connotare in termini spregiativi non la mera attività di denuncia, rafforzando la critica espressa nell’articolo, ma gli stessi soggetti agenti, operando una generalizzazione che, ancorché destinata ad esprimere … la qualità di meri “profeti di sventura”, finisce, senza alcuna correlazione con un nucleo oggettivo – ossia, in termini gratuiti, …. per investire la reputazione dell’associazione” e della persona offesa, superando i confini del diritto di critica.
In conclusione, in tema di diffamazione, ricorre l’esimente dell’esercizio del diritto di critica quando le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolvano in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale.
Avv. Annalisa Gasparre – Specialista in Diritto Penale
Cass. pen., sez. feriale, ud. 9 agosto 2022 (dep. 20 dicembre 2022), n. 48309 – Presidente Boni – Relatore De Marzo
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 22/03/2021 la Corte d’appello di Trieste: a) in parziale riforma della decisione di primo grado, ha assolto C.R. dal reato di diffamazione ascrittogli, in relazione ad un articolo pubblicato sul quotidiano (omissis), per non avere commesso il fatto; b) ha confermato la decisione di primo grado, che aveva condannato alla multa di 500,00 Euro P.P., quale direttore del medesimo quotidiano, per non avere esercitato il controllo necessario ad impedire che, a corredo dell’articolo redatto dal C., venisse pubblicato il titolo “(omissis) “
2. Nell’interesse del P. è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo di seguito enunciato nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., con il quale si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, rilevando che l’espressione adoperata concernente soggetti non chiaramente individuati, in tanto poteva essere riferita alla parte civile – ossia a S.N., presidente dell’Associazione […] – in quanto correlata al contenuto dell’articolo. In ogni caso, proprio la lettura unitaria di titolo e dell’articolo consentivano di comprendere che l’espressione “menagramo” non assumeva il significato di “iettatore”, ma di mero “profeta di sventura”.
3. All’udienza del giorno 9 agosto 2022 si è svolta la discussione orale.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato.
L’espressione adoperata nel titolo, infatti, non lascia dubbi sulla sua concreta riferibilità anche (e tanto è sufficiente ai fini che qui rilevano) allo S., all’epoca presidente dell’associazione […], alla luce della correlazione con il contenuto dell’articolo.
Questa Corte, al riguardo, ha sottolineato come, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini della individuazione del soggetto passivo, non è sufficiente avere riguardo al titolo dell’articolo diffamatorio ma è necessario estendere la disamina a tutto il complesso degli elementi topografici che concorrono a comporlo (Sez. 5, n. 16266 del 09/03/2010, Gambescia, Rv. 247257 – 01).
E, tuttavia, la rilevanza dell’articolo al fine di cogliere il significato individualizzante del titolo, non implica affatto la trasmissione a quest’ultimo della liceità del testo redatto dal giornalista, quale ritenuta dai giudici di merito. Infatti l’espressione sopra ricordata, proprio attraverso il riferimento ai “menagrami di professione” va a connotare in termini spregiativi non la mera attività di denuncia, rafforzando la critica espressa nell’articolo, ma gli stessi soggetti agenti, operando una generalizzazione che, ancorché destinata ad esprimere, secondo la prospettazione del ricorso, la qualità di meri “profeti di sventura”, finisce, senza alcuna correlazione con un nucleo oggettivo – ossia, in termini gratuiti, come osserva la Corte territoriale -, per investire la reputazione dell’associazione e dello S., superando i confini elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte per individuare la causa di giustificazione del diritto di critica.
Al riguardo, si è, infatti, rilevato che, in tema di diffamazione, ricorre l’esimente dell’esercizio del diritto di critica quando le espressioni utilizzate esplicitino le ragioni di un giudizio negativo collegato agli specifici fatti riferiti e non si risolvano in un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale (si vedano i principi di recenti ribaditi da Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, dep. 2022, Mihai Rv. 282871 – 01).
2. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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